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Impresa pubblica e Cassa per il Mezzogiorno protagoniste nel dramma industriale del Sud
di Sandro Petriccione
La crisi che attanaglia molti Paesi della UE, assume in Italia degli aspetti particolari in quanto il livello già alto di disoccupazione su scala nazionale preesistente da molti anni, assume nel Sud i valori più elevati che per i giovani supera ormai il 40%. Decenni di politica che si proponeva di superare o quanto meno di alleviare il dramma della disoccupazione si concludono con una serie di insuccessi anche prima della crisi attuale che tuttavia li rende più palesi e drammatici.
Sembra perciò utile ricordare il grande sforzo che lo Stato italiano ha compiuto dopo il decennio della ricostruzione nel periodo 1969 1973 per attuare un grande programma di industrializzazione che ha mobilitato ingentissime risorse finanziarie e organizzative che hanno reso possibile la creazione nel Sud di grandi impianti industriali della petrolchimica e della siderurgia e, meno della meccanica e dell’avionica, senza però riuscire a dare risultati importanti nel campo dell’occupazione. La crisi sopravvenuta di molti di questi colossali impianti dopo il 1974 nulla toglie all’impegno che Imprese pubbliche e Cassa per il Mezzogiorno profusero per realizzare un disegno di industrializzazione forzata che rimane a testimonianza delle aspettative e dei fallimenti di un’intera classe politica.
Riflettere sui modi di pensare e sulle decisioni politiche prese nel quadro di una politica economica dirigista e i conseguenti errori che caratterizzarono un periodo eccezionale della storia e dell’economia italiana può essere di aiuto per definire al momento attuale un percorso capace di avviare a soluzione con maggior successo i problemi più gravi che affliggono il nostro paese
1. Nel periodo che va dalla fine del decennio della ricostruzione e del “miracolo economico” fino alla fase fortemente perturbata dell’“autunno caldo” e della crisi internazionale causata dal brusco aumento dei prezzi delle materie prime ed in particolare del petrolio, avviene nel Sud dell’Italia un fenomeno che non aveva riscontro dalla fine del Regno di Napoli.
Per la prima volta dopo il 1860 il reddito delle regioni meridionali, pur mantenendosi a livelli inferiori, cresce più rapidamente di quello delle regioni settentrionali mentre gli investimenti che per la massima parte avvengono nei settori dell’industria di base, soprattutto della petrolchimica e della siderurgia1, sono nettamente superiori a quelli del Nord. Protagonisti di questa rivoluzionaria trasformazione dovuta alla politica di industrializzazione forzata osteggiata dagli ambienti imprenditoriali del Nord, in primo luogo dalla Confindustria, sono da una parte le imprese che fanno capo ai cosiddetti “enti di gestione” delle partecipazioni azionarie dello Stato, in particolare dell’IRI e dell’ENI dall’altra la Cassa per il Mezzogiorno.
La scelta di intervenire in maniera decisa per lo sviluppo industriale del Mezzogiorno con lo strumento dell’impresa “pubblica”, cioè in concreto facente capo agli Enti di Gestione, era condivisa dalle forze politiche presenti in Parlamento favorevoli ad assicurare tutto il sostegno finanziario necessario. Rimaneva però il problema di come fare accettare al Partito Comunista che era sostanzialmente d’accordo, la politica prescelta senza dover passare attraverso un dibattito parlamentare particolarmente imbarazzante per la principale forza di opposizione. Si decise quindi di utilizzare la Cassa per il Mezzogiorno la quale sotto la guida intelligente ed avveduta di Gabriele Pescatore aveva con successo operato nel corso del precedente decennio utilizzando le enormi disponibilità finanziarie che le erano assegnate, quasi esclusivamente per la predisposizione di infrastrutture in tutto il Sud, di modificarne sostanzialmente la natura attribuendole il compito del finanziamento dei grandi investimenti industriali. Gli appigli non mancavano: infatti fin dalla legge istitutiva della “Cassa” era previsto il finanziamento di iniziative industriali di piccole e medie dimensioni che però in concreto aveva un peso del tutto irrilevante. Infatti durante il primo decennio di attività della “Cassa” a fronte di una spesa complessiva di 1213 miliardi di lire quella classificata come industria e artigianato2 era solo di 12 miliardi3. Allo stesso tempo andava maturando a livello politico e giornalistico la convinzione che nel Sud si dovesse in ogni modo assicurare lo sviluppo dell’industria; tèsi che in ambito governativo trovava la sua più lucida espressione nella “nota aggiuntiva” presentata nel 1962 da Ugo La Malfa4. Riemergevano come da un fiume sotterraneo le tèsi Morandi-Saraceno che erano state riprese più tardi dallo schema Vanoni e che ritenevano indispensabile per affrontare il problema dell’occupazione nel Sud la sviluppo delle attività manifatturiere, dato che l’aumento della produttività non avrebbe aumentato gli occupati in agricoltura.
Seguendo queste considerazioni anche Giulio Pastore ex segretario generale della CISL appena nominato Ministro per il Mezzogiorno aveva cercato di orientare la “Cassa” verso l’industria pur continuando la sua attività nel campo delle infrastrutture civili (acquedotti e fognature a servizio dei centri urbani e di quelle a sostegno della riforma agraria dighe e reti di trasporto e distribuzione dell’acqua). Il tentativo di portare avanti la proposta di “poli di sviluppo” attorno ai quali si sarebbero dovute localizzare le iniziative industriali di piccole e medie dimensioni dette luogo alla creazione di “Consorzi per le aree di sviluppo industriale” modellati sugli schemi organizzativi dei Consorzi di bonifica. Le infrastrutture sarebbero state messe a disposizione delle imprese a fronte del pagamento di un contributo. Gli organi direttivi dei consorzi, istituiti secondo principi vagamente democratici, che oltre ai rappresentanti degli imprenditori aggiungevano quelli dei sindacati e di associazioni di categoria, contribuirono a rendere spesso inutilizzabili questi strumenti ai quali sotto la spinta di interessi elettorali e qualche volta clientelari si aggiunsero nei capoluoghi di provincia meno importanti i “nuclei di sviluppo industriale” di più modeste dimensioni rispetto ai “Consorzi” e di minori prospettive di crescita.
In quello stesso volgere di tempo si andava diffondendo in Italia la convinzione che per effetto dello sviluppo degli anni Cinquanta del XX secolo, che aveva superato ogni più ottimistica previsione, ci si avviasse verso una situazione nella quale i problemi dell’occupazione apparivano in via di soluzione e che perciò oltre a sostenere nelle regioni meridionali lo sviluppo di un tessuto di industrie di piccole e medie dimensioni, occorresse favorire le decisioni di investimento della grande industria5. Partendo da queste premesse Pasquale Saraceno con l’autorità che gli derivava dall’essere il più ascoltato meridionalista del governo di centro-sinistra argomentava6 come apparisse necessario aumentare gli incentivi all’industria – che erano limitati ad investimenti di un massimo di 2 miliardi di lire perché derivanti dalla convinzione che fosse necessario incentivare nel Sud solo i processi industriali ad alto fabbisogno di mano d’opera e a bassa intensità di capitale e quindi di solito a bassa produttività del lavoro. Con queste limitazioni la grande industria avrebbe scelto secondo lui altre localizzazioni con uno svantaggio per il Mezzogiorno. Saraceno di fatto probabilmente si rendeva conto come fosse realisticamente irrealizzabile l’obiettivo del “Piano Vanoni” – del quale era uno degli autori il quale fissava al 1965 il raggiungimento della piena occupazione in Italia e in primo luogo nel Mezzogiorno e implicitamente, di fronte ai modesti risultati dell’industrializzazione con imprese di piccole e medie dimensioni fondata sui “poli di sviluppo”, accettava lo spostamento nel tempo dell’obiettivo della piena occupazione nel Sud e sosteneva la spinta verso la grande industrializzazione resa possibile dagli incentivi finanziari e infrastrutturali assicurati dalla “Cassa”.
2. Ma pur accogliendo le idee di Saraceno con l’aumento da due a sei miliardi di lire l’ammontare di investimenti oggetto degli incentivi, la realtà doveva dare ben altra accelerazione al sostegno finanziario alla grande industria. Protagonista di un simile mutamento non furono né le imprese pubbliche né la “Cassa”, ma un privato avventuroso imprenditore molto legato agli ambienti politici della Democrazia Cristiana e pronto a correre rischi l’ingegner Nino Rovelli che ideò un complesso petrolchimico ubicato a Porto Torres, nel Nord della Sardegna il quale, partendo dall’etilene giungeva fino alla produzione di materie plastiche. Il gruppo denominato Società Italiana Resine SIR era costituito da una molteplicità di imprese giuridicamente indipendenti (ma di fatto reparti dello stesso impianto) separate solo da ristretti spazi ma che erano tra loro legate da fasi successive del processo produttivo. Ciascuna delle “imprese” era caratterizzata da un investimento attorno ai sei miliardi di lire così da ottenere il massimo degli incentivi. In questo modo il sostegno finanziario che la legge prevedeva per i primi sei miliardi di investimento era invece moltiplicato per il numero delle “imprese” che facevano parte dell’impianto.
Di fronte al rischio di assumersi la responsabilità di erogare gli incentivi (in particolare i grants denominati “contributi a fondo perduto”) Gabriele Pescatore, pur sapendo che il governo era d’accordo con le richieste della SIR di Rovelli, (e non mancavano lettere e circolari della segreteria del Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno) saggiamente fece respingere dal Consiglio di Amministrazione della “Cassa” la richiesta. Ovviamente la SIR ricorse al Consiglio di Stato, difesa da grandi avvocati vicini alla Democrazia Cristiana e al Partito Comunista e la “Cassa” fu condannata al pagamento degli incentivi al livello richiesto da Rovelli ma che era ritenuto giusto dai principali partiti di governo e di opposizione pronti a fornire ulteriori finanziamenti alla “Cassa” per finanziare la grande industria percorrendo la strada più agevole. L’importanza di questa sentenza non è stata messa sufficientemente il luce; in base ad essa tutte le grandi imprese ed in primo luogo quelle che facevano capo all’IRI e all’ENI ottennero incentivi per ciascun reparto degli impianti. Ad esempio nella siderurgia furono considerate “unità indipendenti” la produzione di ghisa, di acciaio, la produzione di coils, di lamiere e perfino l’impianto di manutenzione. Analoghi esempi si potrebbero citare nel campo della petrolchimica.
Da questo momento prende l’avvio la forte accelerazione degli investimenti della grande industria nel Sud soprattutto nei settori della metallurgia e della chimica di base. Il ruolo svolto dalla “Cassa” non era soltanto finanziario ma si estendeva anche agli incentivi infrastrutturali. Infatti da una parte la “Cassa” provvedeva a finanziare gli Istituti di credito a medio termine rendendo possibile il “credito agevolato” cioè con finanziamenti all’industria a tassi inferiori a quelli di mercato e con il già citato sistema dei grants proporzionali agli investimenti effettuati, ma assicurava agli impianti industriali tutte le infrastrutture necessarie alla loro attività. Ma mentre per i finanziamenti si procedeva in maniera automatica, per le infrastrutture si ponevano problemi particolari. La legge sui consorzi industriali che, come si è detto, era modellata sulle esigenze delle piccole e medie industrie PMI, prevedeva che le “infrastrutture generali” (viabilità, condotte per la fornitura di acqua) fossero costruite a totale carico della “Cassa” mentre le “infrastrutture specifiche” cioè a servizio di un singolo impianto fossero realizzate sempre dalla “Cassa” tramite i Consorzi, ma con un contributo a carico dell’impresa interessata. Erano però considerate “infrastrutture generali” quelle a servizio di due o più imprese. Naturalmente per la grande industria era assai facile costituire accanto all’impianto principale una società con gli scopi più diversi che dava la possibilità di fruire delle infrastrutture la cui spesa era a totale carico dello Stato. Si ripeteva la vicenda degli incentivi finanziari ed anche in questo caso alla grande impresa erano assicurate le condizioni migliori. Ed in alcuni casi queste infrastrutture erano di grande rilievo ed andavano dai pontili (a cominciare dall’ENI a Manfredonia e a Gela la SIR a Porto Torres) alle banchine all’interno dei porti (Italsider a Taranto dove la banchina per lo scarico dei minerali arriva a una profondità di 14 metri, allora la maggiore del Mediterraneo) alle grandi condotte per fornire acqua agli impianti (come per l’ENI ad Ottana, una località nel centro della Sardegna fino ad allora ignota alla pubblica opinione e l’Italsider a Taranto) alla viabilità stradale e ferroviaria.
3. Tutti gli investimenti avvennero previa approvazione del CIPE (comitato interministeriale per la Programmazione Economica) del quale facevano parte i principali ministri economici del governo7; fu utilizzata la pro200 cedura cosiddetta di “contrattazione programmata” con la quale sulla base di criteri generali forniti dagli uffici della Programmazione venivano scelte le iniziative da sostenere. Partita come procedura estesa al livello nazionale di fatto fu applicata solo per dare direttive alla “Cassa” per le iniziative alle quali riservare gli incentivi. Le principali decisioni che furono prese riguardavano un ristretto numero di imprese appartenenti al settore petrolchimico e siderurgico. Per la petrolchimica oltre l’ENI-Anic figurava la SIR di Rovelli con l’impianto di Porto Torres e che doveva poi acquisire anche la Rumianca a Sarroch, la Montedison, la Liquichimica a Saline di Reggio Calabria. Tra il 1968 ed il 1974 la “contrattazione programmata” per i grandi gruppi chimici per “pareri di conformità” e delibere CIPE comportò investimenti per oltre 4.000 miliardi di lire. Nello stesso periodo gli investimenti nel settore siderurgico in concreto per l’Italsider di Taranto ammontarono a circa 2.300 miliardi di lire. In totale con la “contrattazione programmata” compreso gli investimenti nella meccanica e nell’avionica si realizzarono in poco più di un decennio investimenti per 7.800 miliardi di lire ai quali si devono aggiungere gli investimenti della “Cassa” per la realizzazione di infrastrutture a servizio dei grandi impianti industriali, una cifra enorme che testimonia lo sforzo dello Stato italiano per spostare al Sud l’apparato industriale del Paese. Alcune importanti iniziative oggetto della “Contrattazione programmata” furono prese in occasione di agitazioni e di incidenti e dettero luogo come risposta del governo ai cosiddetti “pacchetti Sicilia e Calabria” per i quali iniziative appena delineate ma comunque ad alta intensità di capitale per un insieme di investimenti per circa 2.000 miliardi di lire senza i necessari approfondimenti dell’apposito “comitato tecnico” furono decise dal CIPE8. A nulla erano servite le preliminari richieste di cautela di alcuni attenti osservatori come Nino Novacco allora presidente dell’associazione per l’assistenza alle imprese (Iasm)9 il quale paventava lo sviluppo di una struttura industriale nella quale il Mezzogiorno avrebbe prodotto materie di base «destinate a un’industria di trasformazione localizzata in larga prevalenza nelle altre regioni del Paese».
Alla fine del periodo della “contrattazione programmata” il bilancio dell’occupazione nel Sud si chiudeva in negativo.Nonostante le ripetute dichiarazioni dei ministri e degli organi della programmazione l’occupazione indotta (quella diretta era già estremamente esigua) era ben al di sotto degli impegni che venivano puntualmente ripetuti e che già erano poca cosa rispetto all’impegno della piena occupazione del Piano Vanoni. Nel decennio 1960-1970 nelle imprese con meno di 100 addetti nelNord vi fu un aumento degli occupati del 16%mentre nel Sud vi fu una diminuzione del 2%. Per le industrie manifatturiere di tutte le dimensioni vi fu nel Sud un aumento di occupazione di circa centomila occupati rispetto ai trecentocinquantamila assicurati dal Ministro per il Mezzogiorno e dal Segretario della programmazione, pari al 16% passati da 615.000 a 715.000 addetti; nel Nord una percentuale simile di aumento del 17,8% però da 3,88 a 4,57 milioni di addetti.
4. Alla vigilia dell’“autunno caldo” e dello shock petrolifero nel Sud si trovava una parte importante dell’apparato industriale italiano anche se esso non aveva provocato quegli effetti indotti che si erano sperati. Ma all’inizio degli anni Settanta del XX secolo i bruschi cambiamenti della congiuntura politica interna e poi di quella internazionale ebbero effetti disastrosi su tutta l’industria italiana e ancor più su quella ubicata nel Mezzogiorno.
La crisi dell’“autunno caldo” colpì in maniera più grave l’Alfa Sud, la fabbrica di automobili che era in fase di avvio; ideata dall’ingegner Luraghi doveva produrre autovetture di media cilindrata fortemente innovative ed alle quali si aprivano favorevoli prospettive di mercato in tutta Europa. Ma le pressioni clientelari per le assunzioni ed una sciagurata politica dei sindacati, in primo luogo della FIOM, che produsse o accettò una situazione di rapporti industriali addirittura peggiore di quella già pessima delle fabbriche del Nord, finirono col ridurre la produzione di fronte a una domanda crescente che non si era in grado di soddisfare. Da orgoglio della produzione meccanica dell’IRI l’Alfa Sud si trasformò per tutta l’opinione pubblica italiana nell’esempio più negativo delle conseguenze dell’autunno caldo.
La crisi economica internazionale provocata dall’improvviso aumento del prezzo del petrolio e di tutte le materie prime che modificava bruscamente i terms of trade su cui si era fondato lo sviluppo dell’Occidente in tutto il dopoguerra ebbe drammatiche conseguenze sull’industria italiana che aveva vissuto di rendite di posizione trascurando spesso ogni sforzo di innovazione. La crisi produsse la necessità di una riconversione alla quale il governo fu costretto a prestare grande attenzione e ad assegnare importanti risorse finanziarie. Ne conseguì l’arresto dei grandi investimenti industriali soprattutto delle imprese pubbliche nel Sud ed il ritorno della “Cassa” a mero strumento di esecuzione di infrastrutture10. Ma le conseguenze della crisi si fecero presto sentire su tutta l’industria ubicata nel Sud. La flessione della domanda di acciaio colpì in primo luogo l’Italsider di Taranto che era divenuta il più grande impianto siderurgico in Italia ed uno dei primi in Europa provocando perdite rilevanti per la Finsider cioè per l’IRI.
L’aumento improvviso del prezzo del petrolio si fece sentire in tutta l’industria chimica ma soprattutto nella petrolchimica fondata sulla produzione da cracking di etilene e polipropilene, le basi di tutte le materie plastiche. E le industrie chimiche del Sud erano per la maggior parte produttrici di etilene da cui derivavano gli altri prodotti ed erano per lo più ubicate vicino al mare provviste di pontili – costruiti con fondi della “Cassa” per lo scarico delle navi che trasportavano il grezzo. L’aumento del prezzo del petrolio faceva venir meno la convenienza che aveva portato alla proliferazione degli impianti di produzione di etilene e una parte dei vantaggi che avevano determinato le scelte dil ocalizzazione; molte imprese dovettero ridurre la produzione ed alcuni complessi come quello dell’ENI ad Ottana dovettero essere completamente abbandonati. Gli istituti di credito in particolare quelli a medio termine come l’IMI e il CIS (Credito industriale sardo) dovettero sopportare perdite ingenti e la crisi bancaria fu tra le ragioni delle dimissioni del Governatore della Banca d’Italia. D’altra parte la produzione di proteine da sintesi era stata dichiarata pericolosa per la salute umana e così l’impianto della Italproteine dell’ENI a Sarroch e quello colossale di Saline di Reggio Calabria della Liquichimica che faceva capo ad Ursini non potettero nemmeno entrare in funzione. Gli impianti abbandonati o quelli che non iniziarono mai la produzione rimasero a monumento del fallimento dell’eccezionale impegno dello Stato nel corso degli anni Settanta del XX secolo in Italia per sviluppare nel Sud un grande apparato industriale e concorrere alla soluzione dei problemi di occupazione impegno al quale furono dedicate eccezionali risorse finanziarie ed un patrimonio di competenze e di esperienze di tecnici e dirigenti soprattutto dell’IRI dell’ENI e della Cassa per il Mezzogiorno.










NOTE
1 S. Petriccione, Politica industriale e Mezzogiorno, Bari, Laterza, 1976.^
2 Cassa per il Mezzogiorno, Bilancio 1960-1961, Roma 1962.^
3 Cassa per il Mezzogiorno dodici anni 1950-1962, Bari, Laterza, 1962.^
4 Problemi e prospettive dello sviluppo economico italiano, nota aggiuntiva alla Relazione Generale sulla situazione economica del Paese presentata dal Ministro del Bilancio Ugo La Malfa, in La programmazione economica in Italia, Vol. II, Roma, 1967.^
5 Cfr. Pasquale Saraceno, L‘Italia verso la piena occupazione in Studi in onore di Amintore Fanfani, Milano, Giuffré, 1962.^
6 Rapporto del vice presidente (n.d.a. Professor Saraceno) della Commissione nazionale per la Programmazione economica, in La Programmazione economica in Italia, Roma, 1962 ^
7 S. Petriccione, Che cosa ci si aspetta dalla contrattazione programmata, «Nord e Sud», 1964, ma pubblicato in appendice del libro Politica industriale e Mezzogiorno, Bari, Laterza, 1976.^
8 Si veda la nota del Ministro per il Mezzogiorno Donat Cattin, Verifica sullo stato di attuazione delle iniziative industriali facenti parte dei “pacchetti Calabria e Sicilia” di cui alla delibera CIPE del 28-1-1971, 11 ottobre 1973, nella quale si conclude mettendo in luce «la contraddittorietà tra la scelta settoriale degli investimenti che ha privilegiato tecniche capital intensive e le esigenze delle aree di insediamento che invece fanno registrare indici di occupazione particolarmente bassi». ^
9 N. Novacco, Industria chimica e Mezzogiorno, Bari, Fiera del Levante, 1968.^
10 G. Galasso, Meridionalismo 1978: il saio dell’umiltà, Napoli, Guida Editori, 1978.^
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