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Democratici senza democrazia
di Nicola Canizza
Sin dai primi anni della mia adolescenza, il Partito d’Azione mi è sempre apparso come un’ombra. Mio padre, pur essendo stato un azionista, non amava parlarne. Nelle rare occasioni in cui lo invitavo a pronunciarsi sui fuochi da cui si era originata la diaspora azionista – la fine del governo Parri1 nel novembre 1945 e la successiva chiusura del partito2 nel 1947 – coglievo sul suo volto una sorta di tristezza tormentosa. Come si sa la sconfitta – a differenza della vittoria che ha tanti padri – è sempre orfana! Da qui la sua tendenza a desituare le responsabilità inerenti alla dissoluzione del PdA su altri soggetti, che erano comunque esterni al partito. Se la prendeva precipuamente con i comunisti e i socialisti, poiché non avevano difeso in alcun modo il governo Parri. Nondimeno i suoi occhi sprizzavano allegria quando evocava le gesta di alcune figure mitiche del Partito d’Azione come Ferruccio Parri, Emilio Lussu e Randolfo Pacciardi.
Fra questi ultimi non c’erano Aldo Garosci, Leo Valiani e Carlo Ludovico Ragghianti, che, invece, sono i protagonisti del bel libro di Elena Savino, La diaspora azionista. Dalla Resistenza alla nascita del Partito radicale, Francoangeli, Milano, 2010, pp. 367, € 25,00.
All’autrice va riconosciuto il merito di aver saputo ricostruire l’atmosfera politica, culturale ed emotiva che ha contraddistinto due decenni di storia italiana del Novecento. Le vicende e gli ideali di un’élite di intellettuali antimoderati, eretici, socialisti democratici si intrecciano con le speranze e i progetti di tre pensatori quasi coetanei (Garosci nasce nel 1907, Valiani nel 1909, Ragghianti nel 1910). Si tratta di uomini limpidi, disinteressati e alieni da ogni calcolo di opportunità, figure diverse per professioni e interessi, ma affini fra loro per lo stile: ossia per il modo con cui vissero l’assillo tutto novecentesco di coniugare la cultura e la vita. Sono individui, infatti, che non hanno esaurito la loro attività nell’ambito degli studi, poiché hanno saputo svolgere anche un forte impegno civile e politico – prima nella lotta contro il fascismo (Garosci e Valiani, anche nella guerra di Spagna), poi, nella Resistenza fino alla fine degli anni Cinquanta – alla ricerca di un socialismo liberale e antitotalitario.
Sulla scorta delle loro opere, della loro attività giornalistica e della loro corrispondenza, l’autrice segue il percorso dei tre azionisti, tenendo nel debito conto il ruolo da essi svolto: durante gli anni della Resistenza; negli anni successivi alla chiusura del PdA; negli anni della loro collaborazione con «Il Mondo» di Mario Pannunzio, fino alla nascita del Partito radicale. Di fatto la fondazione del Pr si configura come il punto di approdo di una deriva che dura dieci anni – i «dieci inverni» che vanno al 1946 al 1956 –: ossia come l’esito della lunga ricerca della «terza forza», capace di dar luogo a un nuovo soggetto politico nel quale potevano confluire sia le eresie liberali e socialiste sia l’aspirazione a costruire il socialismo liberale su cui aveva riflettuto Carlo Rosselli.
Tale progetto nasce nel secondo dopoguerra da una duplice consapevolezza: da una parte il neoguelfismo della DC, con la sua nefasta azione di governo, aveva sortito un sensibile ottenebramento degli ideali della Resistenza e, dall’altra, il togliattismo del Pci, con la sua esiziale egemonia culturale, aveva prodotto una politica conservatrice sul piano dei diritti civili. Si tratta di un’egemonia che veniva perseguita attraverso il recupero dell’eredità teorica di Antonio Gramsci, che era morto nel 1937. Palmiro Togliatti, benché considerasse Gramsci un velleitario nonché un diciannovista, contribuì egualmente alla sua santificazione, a patto di stravolgerne il pensiero. Di fatto, a partire dal secondo dopoguerra, gli intellettuali organici del Pci stesero un velo di silenzio su gran parte dei suoi scritti precedenti all’arresto. Prese allora forma il disegno di contrapporre alla genuina e autentica riflessione del pensatore sardo estrapolazioni e forzature tratte dai Quaderni, che, proprio perché furono scritti in carcere, sono inevitabilmente allusivi e reticenti nei pochi accenni politici. Tutto ciò a discapito degli scritti inerenti al biennio 1919-1920, in cui si riconosceva la funzione liberatoria e, insieme, conoscitiva, insita nelle nuove forme di sociabilità prodotte dai movimenti (il momento istituente). La scelta di pubblicare per lo più i Quaderni, che sono comunque utili agli storici, ha precluso per alcuni decenni agli studiosi la possibilità di cogliere, nella sua interezza e complessità di articolazioni, la portata teorica del suo pensiero che – in continuità con la grande tradizione della filosofia italiana, da Campanella a Machiavelli, da Bruno a Galilei, da Vico fino a Croce e Gentile – tende a valorizzare il conflitto piuttosto che l’ordine.
Ma cerchiamo di vedere più da vicino le figure dei tre azionisti, di seguirli per un breve tratto del loro itinerario esistenziale, soffermandoci sugli esiti più rilevanti della loro riflessione.
Come avremo modo di vedere, ciò che li accomuna nel loro percorso di ricerca non è solo il loro approdo, ma è anche il fatto che nel loro transito dal marxismo al socialismo liberale utilizzano lo stesso viatico: la critica di Benedetto Croce nei confronti del pensiero di Marx si configura, infatti, per i tre azionisti come un’autentica apocalisse. Ciò che, invece, li rende differenti è la peculiarità del loro diverso temperamento.
Garosci è il «mago» – era questo l’appellativo che gli era stato dato da Valiani –, poiché aveva la straordinaria capacità di produrre analisi, capaci di cogliere il senso delle dinamiche politiche e sociali relative al presente. Proprio in virtù delle sue attitudini, avrebbe voluto dedicarsi agli studi storici. Nondimeno, per la sua opposizione al fascismo, fu costretto ad abbandonare l’Italia e a mettere da parte le sue giovanili ambizioni e le sue speranze di successo nell’ambiente universitario. Sfuggito all’arresto, nel 1936 raggiunge Parigi, dove diventa redattore del settimanale «Giustizia e Libertà». È tra i principali collaboratori di Rosselli e, attraverso la sua mediazione e la lettura delle opere di Benedetto Croce e Adolfo Omodeo3, si avvicina al socialismo liberale. Sempre nello stesso anno ritorna a frequentare i vecchi amici torinesi come Carlo Levi e Franco Venturi e inizia a coltivare una nuova e profonda amicizia con Valiani.
Quest’ultimo, dopo aver aderito al PCd’I, nel 1936 si era recato in Francia, meta prediletta dei fuoriusciti antifascisti, e si era immerso nel contesto tanto caotico quanto stimolante della Parigi della seconda metà degli anni Trenta, quella del fronte Popolare e delle riviste eretiche. Qui le certezze ideologiche cominciano lentamente a vacillare. La sua enorme curiosità lo porta a frequentare gli ambienti del marxismo dissidente. Vive pertanto una strana condizione: da una parte è un militante del PCd’I e, dall’altra, si accosta agli ambienti del comunismo dissidente francese, che ruotano intorno alla rivista «Que Faire».
Durante gli anni dell’esilio in Francia, Valiani diventa un assiduo lettore de «La Critica» crociana e dei libri di Benedetto Croce. Per dare un’idea dell’attenzione con cui seguiva la produzione crociana, giova ricordare che Valiani, durante il periodo in cui fu internato nel campo di Vernet, progettava di scrivere un saggio sulla Storia d’Europa nel secolo decimonono. Qui a Vernet stringe amicizia con lo scrittore ungherese Arthur Koestler, il quale gli farà leggere il manoscritto di Buio a Mezzogiorno4, in cui vengono denunciati i processi stalinisti contro gli ultimi esponenti della vecchia guardia bolscevica. L’addomesticamento della distanza fra i due fu favorito, probabilmente, anche dal fatto che Valiani conosceva l’ungherese, poiché l’aveva studiato alle elementari nella città di Fiume. L’esule ungherese fu a tal punto colpito dallo spessore della sua personalità che lo immortalerà nel romanzo autobiografico Schiuma della terra5. Qui tratteggia un ritratto di Mario/Leo Valiani, che si configura come la migliore testimonianza del suo carattere e della sua dignità.
La condivisione delle critiche di Croce nei confronti del marxismo, il patto di non aggressione, firmato da Molotov e Ribbentrop e, in seguito, l’incontro con Koestler, sono queste le tre piccole apocalissi che lo portano a prendere in modo definitivo le distanze dal Pci e ad avvicinarsi al socialismo liberale di Rosselli.
Valiani è l’uomo che tiene nel debito conto la «mediazione delle passioni». Infatti, se è vero che va riconosciuto a Valiani la capacità di produrre analisi di ampio respiro, è altresì certo – dice la Savino – che il suo «realismo analitico non gli impediva di coltivare speranze arrischiate e generose. L’Utopia – se ne accorgeva lui stesso – guidava i suoi pensieri e i suoi atti ed era legata ad alcuni eccessi verbali»6.
Dopo la disfatta militare della Terza Repubblica, Valiani e Garosci, nell’ottobre del 1940, decidono di lasciare la Francia: il primo si reca negli Usa, il secondo in Messico. Caduto il fascismo, nell’estate del 1943, gli Americani autorizzano Valiani e Garosci – insieme ad altri antifascisti – a rientrare in Italia. Via Algeri, Sicilia, Salerno, arrivano a Roma. Qui l’ex dirigente comunista passa al Partito d’Azione e prima di recarsi a Milano per rappresentare PdA nel Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia, ha il tempo di incontrare e di stringere amicizia – insieme a Garosci – con Ragghianti.
Quest’ultimo appare come l’artefice della «democrazia concreta», poiché, con la sua azione di governo nella Toscana liberata dal fascismo, aveva promosso il decentramento amministrativo. Ragghianti, a differenza dei primi due, si interessa di Storia dell’arte. Partito da un’iniziale adesione ai principi del positivismo e del marxismo, finisce presto per approdare allo storicismo d’impronta crociana dopo le letture e le discussioni nell’ambiente della Normale pisana. Qui viene a contatto con altri giovani di diverso orientamento con i quali pur tuttavia condivide una forma comune di opposizione al regime fascista. Stringe un forte sodalizio intellettuale con Aldo Capitini e Guido Calogero e attraverso la loro mediazione aderisce al movimento liberalsocialista. Tale movimento nel 1942 si fa promotore insieme ai socialisti liberali della fondazione del Partito d’Azione, un partito che si colloca all’interno di un orizzonte che esclude elaborazioni dottrinarie nella prospettiva di concentrarsi sull’azione concreta. Il primo accordo viene trovato sulla base di un documento programmatico conosciuto come «Sette punti», redatto proprio da Ragghianti alla fine del 1941 e approvato a livello nazionale nel luglio 1942. Il programma prevedeva: la repubblica; l’espansione delle autonomie locali; la nazionalizzazione dei grossi complessi industriali e monopolistici; la riforma agraria; la libertà sindacale; la massima libertà politica e religiosa; la federazione europea.
In seguito, la sinistra interna che faceva capo a Emilio Lussu ritenne che tale programma fosse inadeguato e, nel primo Congresso nazionale del partito tenuto a Cosenza nell’agosto 1944, propose di aggiungere altri nove punti. Tuttavia, come ha osservato Vito Antonio Leuzzi, in quel congresso, «dominato dalle accese dispute ideologiche tra la sinistra che faceva capo a Lussu e un’area moderata rappresentata da Parri e La Malfa, erano state di fatto relegate in secondo piano le posizioni del Centro Meridionale»7. La relazione di Guido Dorso sulla Questione Meridionale8 – incentrata sulla denuncia del trasformismo e sulla funzione delle minoranze intellettuali – era stata oggetto solo di pochi interventi, e «privi, comunque, di approfondimenti analitici»9. Da qui, l’esigenza di porre al centro dell’attenzione la realtà del Mezzogiorno spinse Michele Cifarelli, Manlio Rossi-Doria e lo stesso Guido Dorso a organizzare a Bari nel dicembre 1944 «Il primo Convegno di studi meridionalistici». Nelle comunicazioni tenute al Convegno – inaugurato da Adolfo Omodeo – sono presenti le diverse posizioni del PdA nei confronti della riforma agraria, sulle modalità inerenti agli espropri dei grandi latifondi e sull’attivazione di cooperative di produzione. L’analisi più rilevante – insieme a quella di Rossi-Doria – è quella dell’allievo di Giustino Fortunato. Dorso sostiene una tesi che in seguito verrà ripresa in parte da Valiani. Dice, infatti, che una rivoluzione democratica può avvenire solo attraverso la formazione di una nuova classe dirigente. Per di più, ritiene necessario che la «borghesia umanistica» si stacchi dagli interessi della borghesia terriera ed entri in «contatto con l’operaio, con l’artigiano ed il contadino. Queste sono le vere forze rivoluzionarie del paese, ma esse sono inaccessibili senza l’appoggio degli intellettuali»10. Il problema del consenso dei ceti medi era anche per Valiani il problema della democrazia. Si tratta, dice la Savino, dello stesso problema con cui si erano trovati «a fare i conti i partiti laici e quello che segnerà anche l’insuccesso del Partito radicale»11. In questo senso assumono un valore profetico le seguenti parole di Valiani: «senza il consenso e il concorso dei ceti medi non soltanto non è possibile instaurare la democrazia, ma neppure mantenere in vita la democrazia politica»12.
Non è inutile rilevare che dopo quasi settant’anni in Italia i ceti medi continuano – come sosteneva Valiani – ad essere refrattari al socialismo laburista e democratico e constatiamo, inoltre, che non è nata una nuova classe dirigente!










NOTE
1 Sulle dinamiche politiche che portarono alla crisi del governo guidato da Ferruccio Parri nella seconda metà del 1945, vedi il romanzo di CARLO LEVI, L’Orologio, Einaudi, Torino, 2006. Qui, tra i diversi personaggi messi in scena, la figura più rappresentativa è quella di AndreaValenti/Leo Valiani.^
2 In riferimento alle vicende interne al PdA, vedi GIOVANNI DE LUNA, Storia del Partito d’Azione, Feltrinelli, Milano, 1977.^
3 Aldo Garosci conosceva le opere di Adolfo Omodeo. In una lettera alla vedova di Omodeo scritta nell’agosto del 1959, a proposito dello storico siciliano, Garosci rilevava di essere «uno di quelli che il suo pensiero ha molto aiutato, e certo la lettura delle sue opere mi ha dato alcune delle gioie intellettuali più profonde che abbia sperimentato nel lungo periodo dell’esilio». Per la lettera in oggetto, vedi MAURIZIO GRIFFO, Adolfo Omodeo, Aldo Grarosci, Leo Valiani: uno scambio epistolare (1945-1946), in «L’Acropoli», anno XIII, n. 3 – maggio 2012, Rubbettino, Soveria Mannelli.^
4 ARTHUR KOESTLER, Buio a Mezzogiorno, Arnoldo Mondadori, Milano, 1996. Ho avuto occasione di leggere questo romanzo durante la mia adolescenza. Agli inizi degli anni Sessanta, fu mio fratello Mario a comprarlo, pensando che si trattasse di un libro giallo. Lo lessi più volte e discutemmo in diverse occasioni di Nicola Rubasciov, l’affascinante protagonista del romanzo che echeggia la figura di Nicola Bucharin. Ma ciò che allora mi colpì non fu tanto la trama del romanzo quanto la particolare concezione della storia - di stampo hegelo-marxista – che veniva veicolata attraverso il diario di Rubasciov. Pur avendo perso il libro, posso citare a memoria le sue parole: «L’ultima verità in penultima analisi è sempre una menzogna. Colui che avrà avuto ragione alla fine sembrerà sempre fallace e pericoloso prima di questo momento. Ma chi avrà avuto ragione alla fine lo si saprà solo più tardi. Nell’attesa egli è tenuto a vendersi l’anima al diavolo nella speranza dell’assoluzione della Storia». Ecco, Rubasciov è ossessionato dalla Storia. La Storia viene ipostatizzata, diventa una dea che assolve; gli altri, quelli che avranno avuto torto – sempre in penultima analisi! – finiranno nell’immondezzaio della Storia. Insomma, questi particolari nipotini di Hegel nutrono una sorta di tenerezza tormentosa nei confronti di se stessi, si trovano sempre in una sorta di limbo, al paradiso non arrivano mai!^
5 ARTHUR KOESTLER, Schiuma della terra, Il Mulino, Bologna, 2005.^
6 ELENA SAVINO, La diaspora azionista. Dalla Resistenza alla nascita del Partito radicale, Francoangeli, Milano, 2010, p. 63.^
7 VITO ANTONIO LEUZZI, Postfazione, Atti del Convegno di studi sui problemi del Mezzogiorno – Bari, 3,4,5, dicembre 1944, Edizioni dal Sud, Bari, 2006, p. 247.^
8 Per la relazione di Guido Dorso, vedi M. CARONNA, G. Dorso e il partito meridionale rivoluzionario, Cisalpina-Coliardica, Milano 1972.^
9 VITO ANTONIO LEUZZI, Postfazione, Atti del Convegno di studi sui problemi del Mezzogiorno – Bari, 3,4,5, dicembre 1944, cit. p. 247.^
10 GUIDO DORSO, La classe dirigente meridionale, in Atti del Convegno di studi sui problemi del Mezzogiorno – Bari, 3,4,5, dicembre 1944, cit. p. 41. Nel dicembre 1945, Guido Dorso si dimise dal Partito d’Azione poiché aveva costatato il venir meno dell’impegno meridionalistico.^
11 ELENA SAVINO, La diaspora azionista. Dalla Resistenza alla nascita del Partito radicale, cit. pp. 231-232.^
12 Ivi.^
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