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Roma città nazionale
di Andrea Riccardi
La celebrazione dei 150 anni dell’Unità ha messo in luce la grande fatica con cui lavora la storia contemporanea; forse la sua crisi, non sempre capace di interessare e soprattutto di svolgere la funzione di ieri. Il libro di C. Dau Novelli [La città nazionale. Roma capitale di una nuova elite (1870-1915), Roma, Carocci, 2011] si apre con un ricordo di un piccolo e prezioso lavoro di Pietro Scoppola sui discorsi di Cavour per Roma capitale: ebbene proprio Scoppola appare un modello tipico della funzione civile dello storico contemporaneista nella Repubblica dei partiti e nella sua crisi. Oggi è diverso, proprio per le caratteristiche dello scenario in cui lavoriamo. C’è in fondo una concezione del tempo circolare per chi vive nella bolla individuale del quotidiano, senza una visione del futuro, ma anche senza il senso e la storia da cui viene. Lo stesso può dirsi per la bolla della cronaca politica e delle sue tempeste.
Questo si traduce nella vita quotidiana. In una città come Roma, si sente la crisi di identità della città e della gente: le sue periferie, seminate di antagonismo, fino alla violenza (più di 30 omicidi nel 2011), abitate spesso da giovani che non sanno da dove vengono e dove vanno. La storia contemporanea ha un compito civile importante: ridire da dove vengono queste città. Peraltro l’Italia è il paese delle cento città più che delle regioni federali, mentre Roma è il frutto della storia unitaria (città antichissima, ma anche città nuova). È, come dice Cecilia Dau, la città nazionale. Dico la stessa cosa in altri termini: è la sola città italiana, in cui non c’è un pronunciato carattere cittadino che abbia assorbito quello degli immigrati. Quanta differenza da Torino o Milano, ma anche da Napoli o Palermo. Questa è la fragilità di Roma, città sintesi della storia italiana, che prima riceve apporti di popolazione dal Nord e poi dal Sud. Questa è la sua italianità. Ma Roma, città italiana, non è Parigi che fa la storia della Francia, anzi spesso la subisce, a cominciare dai primi anni dell’Unità.
Cecilia Dau mostra, con questo libro, una passione: ridare storia e senso alla capitale nazionale, che viene da anni difficili, in cui è stata spesso insultata o considerata paradigma dei difetti italiani. È un grande libro, maturo e ricco, poliedrico nella lettura di Roma. Si legge bene, perché credo, con Geremek, che la storia sia un misto di scienza e di poesia. Se si vuole aiutare la coscienza a lievitare, bisogna anche farsi leggere. Questo libro Interventi si fa leggere, mentre ci fa camminare per le vie e i luoghi di Roma, spesso insignificanti nell’usurato contatto quotidiano, mostrandocene il significato che hanno avuto nella transizione tra la Seconda Roma e la Terza Roma (per usare il termine mazziniano, ripreso dal fascismo). Ritrovare i significati storici vuol dire rivivere la città come una casa e non come un albergo usurato. E questo libro riesce benissimo in questa funzione, anche se lascia aperta al lettore la domanda sottesa dall’inizio alla fine e racchiusa nel libro di Matilde Serao (1885) che mostra una Roma fascinosa e cosmopolita o in quello di Federico De Roberto (1929), che parla di “imperio”, città del potere.
Davvero Cecilia ci fa viaggiare per i cantieri della costruzione della nuova Roma, per i ministeri, i circoli, i salotti, i balli, la caccia, i palazzi dell’aristocrazia nera (quella che teneva il portone chiuso a metà in segno di lutto per il 20 settembre) e di quella sabauda, i loro banchetti (con menù in francese, prima, poi in italiano), la corte, le parate, le scuole, gli ambienti militari e professionali, l’Università, le case del ceto medio, la massoneria, le associazioni sportive, la stampa e via dicendo, fino alle imprese commerciali dei Bulgari o dei fratelli Palombi. È un libro da gustare in tutte le sue pagine. È la storia di come si costruisce una nuova capitale. Queste operazioni non sono una novità: basterebbe pensare a Brasilia. Capitale vuol dire anche dare un’anima e una direzione a una nazione. Così fece Pietro il Grande, quando fondò nel 1703 San Pietroburgo lasciando Mosca per una capitale moderna. Gli Hohenzollern vollero la loro Berlino che esprimeva la guida prussiana dell’Impero.
La nuova Roma non nasce solo in un sito storico-archeologico (come fu per Atene, rinata totalmente come capitale della nuova Grecia), ma accanto e dentro una città viva, quella più che millenaria dei papi. Forse Cecilia Dau la guarda troppo dalle finestre dell’élite nazionale, vedendola grigia (forse era una città dove si sentiva prossima la fine, nonostante forti investimenti sull’urbanistica). Era una città teocratica, separata dal resto d’Italia proprio dallo strano Lazio, un po’ fuori dal tempo (ho studiato il Vaticano I e ho letto le corrispondenze dei vescovi francesi a Roma, spesso a disagio per questa condizione non moderna). Tuttavia compatta: su meno di 250.000 persone quasi 50.000 vivevano da reddito e rendita fondiaria. Nel 1911, la popolazione è più che raddoppiata, mentre è aumentato il ceto professionale (anche se non in modo soddisfacente) e circa 60.000 persone vivono di reddito. Cecilia scrive che la città «aveva anche cambiato pelle […] composta di lavoratori impiegati nella costruzione del nuovo Stato» (p.184). Da città teocratica sul modello della tibetana Lhasa, a capitale di un Regno accentrato sul modello francese. Questo è avvenuto con traumi e scontri, ma con una storia che ha marcato il carattere di Roma. Questi anni sono importanti, anche perché rappresentano l’incubazione della città contemporanea, in cui si forgia la sua struttura urbanistica e quella classe portante, che non è quella politica ma il ceto medio.
Il divorzio politico tra le due rive del Tevere è chiaro, ma, mentre viene imposta una nuova città, il divorzio sociale non è così profondo o si ricompone presto, quello tra romani de’ Roma e buzzurri. Il sogno della restaurazione del potere papale si consuma rapidamente, mentre non si consuma nei vari strati della popolazione la fedeltà al papa, quindi la richiesta di una sistemazione della sua posizione con il riconoscimento della sua sovranità, in modo che non sia, insegnava Scoppola, un suddito italiano, come voleva la Legge delle Guarentigie. Bisogna rileggere le pagine di Federico Chabod sulla storia della politica estera italiana per accorgersi dello spessore dell’idea di Roma, ma anche per cogliere una classe dirigente ossessionata dall’ombra di Pietro, come il primo re, Vittorio Emanuele II, ossessionato dal passato nei saloni del Quirinale.
Il libro di Cecilia ci fa vedere come nascono le strutture dello Stato, ma anche come si celebra il culto della nuova capitale, la sua sociabilità, mentre si fondano le sue istituzioni, a partire da quel Ministero dell’Interno, il “gran motore” per Vittorio Emanuele Orlando. La politica municipale è sovente gestita da moderati, mentre brucia la febbre edilizia. Alla luce dell’edilizia, si pensi a mons. De Merode e ai Boncompagni, ma anche delle finanze, si ricompone ben presto il divorzio tra le due Rome. La capitale è un cantiere interessante per chi ha denaro buono. Si afferma quel primato dell’intraprendere edilizio sul disegno della città, tipico di Roma, eccetto alcune aree. Il Comune di Roma non riesce a star dietro alla febbre edilizia. Intanto si distruggono parecchie ville e si costruisce a macchia d’olio.
Benny Lai ha mostrato nei suoi studi sulla finanza vaticana l’integrazione degli interessi cattolici nella nuova capitale. È una prima collaborazione, mentre Pio IX si dichiara prigioniero, i cardinali assistono alle funzioni nelle chiese romane solo se si pone dietro di loro una grata per mostrare la separazione dalla nuova sovranità. Intanto Leone XIII sviluppa con nuovo vigore una corte papale, mentre le sue iniziative internazionali di mediazione gli danno prestigio sovrano. Soprattutto, ha notato Giacomo Martina nei suoi studi, mentre si esprime a Roma l’anticlericalismo (come con l’inaugurazione del monumento a Giordano Bruno), i romani non si distaccano dalla pratica religiosa e anche i buzzurri (interessante la pagina sui loro testamenti) si associano ad essa. La Roma delle chiese è anche la loro. Soprattutto la Chiesa, se non accetta in teoria il nuovo potere, fin dal 21 settembre sa che tutta quella gente portata a Roma dal cantiere della capitale italiana non è barbara, ma è cattolica: i nuovi romani non le sono estranei. È una delle caratteristiche del processo di questi anni.
Certo, nella città, si fa spazio Roma capitale, con le sue élites: si sfonda lo scenario della capitale papale. Il cuore della celebrazione del culto di Roma e del consenso attorno alla capitale non è il governo, ma la monarchia. Poco si è studiata la monarchia italiana, forse per la fine ingloriosa della sua famiglia. La sua è una storia quasi pre-novecentesca. Tuttavia ha un gran ruolo nella costruzione di Roma. Il monumento alla capitale è quello a Vittorio Emanuele II. Ci sono belle pagine sulla corte (che credo non esistano altrove) dei tre re succedutisi. Corte vuol dire aristocrazia, nuova aristocrazia con la nomina dei senatori del regno (vera fucina di un nuovo ceto che resiste oltre il fascismo: il caso di Benedetto Croce), ordini cavallereschi, riti politici e nazionali, onorificenze, borghesia e ceto medio: una raggiera che ruota attorno al sovrano e alla sua famiglia.
Il sovrano, si veda la monarchia britannica, è gran sacerdote di questo culto della nazione. Ma la monarchia sabauda, nonostante la storia antica, assomiglia più agli Orléans o alla monarchia belga che agli inglesi. Non c’è incoronazione, ma giuramento, anche perché si tratta di uno Stato liberale e il re è scomunicato. Umberto e Margherita interpretano al meglio questo ruolo centrale nella vita di Roma per poco più che vent’anni. Seguono Vittorio Emanuele III e la regina montenegrina, lui primo re nato italiano a Napoli nel 1862. Si è insistito sulla loro timidezza; certo, ma gli anni prima del 1915 sono importanti anche nel consolidamento del rapporto tra Roma e i Savoia. Del resto questo re è decisivo nell’ingresso dell’Italia nella prima guerra con espressione di continuità con la visione sabauda. Dopo la guerra e con il fascismo, il re è marginalizzato, perché il duce diventa il gran sacerdote del culto della capitale che come scriveva negli anni Settanta Ernesto Galli della Loggia è uno dei pezzi più forti nella scarna ideologia fascista.
Intanto, però, le due Rome si erano fuse, anche se restavano due corti, due corpi diplomatici. Soprattutto, in poche decine d’anni, si era consolidata quell’osmosi, dice Cecilia, che aveva il suo cuore nel ceto medio, dai grandi servitori dello Stato agli impiegati, venuti come eroi borghesi per servire l’Italia, ma ben presto additati come zavorra italiana fino ad oggi: «sospesi tra apparenza e sostanza, scrive, gli impiegati costituivano comunque il cardine dello Stato». La nuova romanità nazionale e italiana passa tanto attraverso questo ceto medio, che si collega anche agli ambienti professionali, al mondo della scuola e dell’Università. Italiano, fedele alla dinastia, per lo più cattolico, diventa il cuore pulsante di Roma. È la conciliazione silenziosa, alla base della costruzione di una capitale europea laddove era una città teocratica, assumendosela al proprio interno. In questo senso Roma è città-sintesi nei suoi cromosomi, trasversale, capace di meticciare al proprio interno, ma anche di operare, a suo modo, sintesi nel paese. È l’opera della borghesia e del ceto medio. Questo è un carattere cromosomico di Roma.
Roma non è più città dei romani papalini, ma diventa città nuova facendo sintesi con quella vecchia e aprendosi a nuovi flussi di popolazione. La nuova romanità non sarà cattolica, ma sarà nazionale con una capacità di sintesi di fondo, attraverso i conflitti (non si può ignorare, ad esempio, il ruolo della giunta Nathan). Nasce la città nazionale, mentre si forgia una romanità nuova. In fondo questa città, dove pure i ceti medi si fascistizzano ben presto, resiste a divenire la capitale imperiale di uno dei poli dell’Asse Roma-Berlino. Diventa capitale democristiana e poi quella di una sinistra di governo. Ma questa è altra storia rispetto ai capitoli densi e belli del libro di Cecilia. Resta però che questo libro è scritto oggi, in una città che vive, come il paese e come tante città del mondo (si veda Londra), una stagione di spaesamento, anzi di lacerazioni del tessuto umano e urbano. Questo spaesamento coincide anche con la crisi del ceto medio nell’ultimo decennio e con quella crescente accresciuta dalla crisi economica.
Cecilia cita quel colloquio tra Sella e il grande Mommsen, tedesco e protestante, angosciato per il futuro di Roma occupata dagli italiani: «questo ci inquieta tutti; a Roma non si sta senza propositi cosmopoliti». Scrive Sella: «Il fiero teutonico aveva accusato i piemontesi di non avere un progetto su Roma». Gli rispose: «sì un proposito cosmopolita non possiamo non averlo a Roma: quello della scienza». Roma non diventa città della scienza. Ma bisogna avere propositi cosmopoliti… Il grande problema di Roma diventa oggi la banalizzazione della città con un centro svuotato di presenze significanti, che va verso il “modello Venezia”. Questa è attualità, ma questo libro dà un contributo importante perché ci aiuta a capire come è nata questa Roma capitale.
La sintesi dolorosa ma creativa, in pochi decenni, crea una città nuova dalle radici antiche, con il prestigio nel mondo della Roma cattolica e quello della capitale del Regno. Roma è un nome evocativo su tanti scenari. Una piccola storia del sistema con cui avviene questa creazione è quella di Pio XII, figlio di una famiglia papalina (Ernesto Pacelli fu banchiere del papa nella crisi dell’Unità). Nato nel 1876, il futuro papa studia però in un liceo “italiano” come il Visconti, tanto da ricevere da papa gli ex allievi. Nel 1939, per scongiurare l’ingresso dell’Italia in guerra, è il primo papa che si reca in visita da Vittorio Emanuele III al Quirinale. Durante il breve tragitto lo accompagna, è un aneddoto, il suo maggiordomo, mons. Federico Callori di Vignale, di nobiltà monferrina, il quale piange commosso della ricomposizione politica della sua famiglia. Al Quirinale lo aspetta il re, uno degli aiutanti di campo è un fratello del monsignore, sempre Callori di Vignale.
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