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La "differenza antropologica" e il razzismo degli intellettuali meridionali
di Eugenio Capozzi
Negli ultimi decenni il dibattito culturale e politico sul Mezzogiorno italiano ha visto un serrato confronto tra gli assertori di una continuità della “questione meridionale” e i sostenitori di una sostanziale fine del meridionalismo: in nome di una speculare “questione settentrionale”, del federalismo, e/o di una nuova autonomia politico-economica delle regioni del Sud.
In particolare, poi, all’eredità del meridionalismo liberaldemocratico e marxista, che dalla fine dell’Ottocento fino agli anni Sessanta aveva inquadrato il problema dello sviluppo meridionale entro la cornice dell’integrazione tra il Sud Italia, lo Stato nazionale italiano e gli Stati economicamente più avanzati dell’Europa, si è contrapposta, in sostanza, la tendenza di molti studiosi – prevalentemente exmarxisti – a considerare il Sud italiano piuttosto juxta propria principia, come uno specifico segmento nel più vasto quadro del mondo globalizzato. E proprio a questa tendenza molte tra le nuove classi dirigenti politico-amministrative emerse negli anni Novanta dall’introduzione della democrazia bipolare d’alternanza con l’elezione diretta di sindaci e “governatori” hanno sovente fatto esplicito riferimento, ergendosi a rappresentanti di un “rinascimento” politico ed economico meridionale imperniato su una visione “meridiana” e mediterranea dello sviluppo, svincolata dalla sudditanza ai modelli “nordisti” e occidentali.
In un torno di tempo ancor più vicino a noi, tuttavia, la discussione in materia ha subito una curiosa inversione. Alla base di essa, molteplici fattori in parte connessi tra loro: la constatazione di una innegabile, persistente differenziazione economica tra Nord e Sud; la crisi economica globale dalla quale il Mezzogiorno d’Italia è stato particolarmente colpito al pari di tutte le aree arretrate; le fortissime difficoltà incontrate dal nuovo personale amministrativo meridionale (campano in primis, ma non solo). Proprio dai ranghi di quella classe politica meridionale che si pretendeva emancipata dai termini del “vecchio” meridionalismo, sulle ali di un’intellighenzia nutrita dalle tesi dell’orgoglio “meridiano”, hanno iniziato a levarsi rinnovati, accorati, appelli all’emergenza della “questione meridionale”. In particolare, si sono tornati ad invocare interventi pubblici per alleviare il disagio del Sud e favorirne l’equiparazione alle regioni più sviluppate. Tanto da spingere alcuni osservatori a parlare dell’ascesa di una corrente politico-culturale non più tanto meridionalista, quanto piuttosto “sudista”, intendendo con questo termine l’affermarsi di una piattaforma apertamente rivendicativa, redistributiva, quando non addirittura venata di accenti vittimistici.
Tale repentino cambio di atmosfera muove ad una riflessione generale sul problema dello sviluppo del Mezzogiorno, e sul suo rapporto con le culture politiche italiane dal XIX secolo ad oggi. Si affaccia, in particolare, con forza un’ipotesi: quella che esista una qualche forma di sotterranea continuità culturale tra le voci che hanno esaltato un Mezzogiorno orgogliosamente autonomo e autogovernato, e le torsioni del meridionalismo in senso esplicitamente assistenzialistico emerse nel secondo dopoguerra. Troppo, infatti, entrambe appaiono a prima vista condizionate dal presupposto di una assoluta “specialità” nella situazione del Sud Italia, e quindi dalla tendenza a scindere le vicende di quest’ultimo dal più generale contesto problematico della storia italiana, europea e occidentale.
Pare proprio questo il dubbio insinuatosi nella mente di Marco Demarco, direttore di uno dei principali quotidiani meridionali e già autore di un originale volume intitolato L’altra metà della storia (Guida, 2006), dedicato ad un ripensamento complessivo della storia di Napoli del secondo dopoguerra. A partire da quell’interrogativo, e dalle considerazioni problematiche che ne derivavano, egli ha costruito un volumetto che è insieme un efficace pamphlet e un saggio di analisi storiografica: Bassa Italia. L’antimeridionalismo della sinistra meridionale (Guida, Napoli, 2009).
In esso, Demarco prosegue una linea di riflessione che lo spinge a rimettere in discussione interpretazioni consolidate e luoghi comuni stratificati sulle vicende del Sud Italia. Non però secondo un atteggiamento superficialmente “decostruzionista” o aprioristicamente “revisionista”, magari fondato su un più o meno accentuato relativismo culturale e ideologico. Al contrario, alla base dell’impietosa analisi destruens della storia politicoculturale proposta da Demarco sta il profondo legame proprio con un’impostazione classica, liberaldemocratica del pensiero meridionalista. In particolare, il giornalista napoletano prende evidentemente spunto in primo luogo, nella sua rilettura, dalla lunga riflessione condotta in merito per più di mezzo secolo da Giuseppe Galasso, ultimamente in serrata polemica proprio con i circoli intellettuali post-meridionalisti e “meridianisti” riuniti intorno alla casa editrice Donzelli, e recentemente riassunta nel volume Il Mezzogiorno da “questione” a “problema aperto” (Lacaita, Manduria-Bari-Roma, 2005), o nella post-fazione alla nuova edizione del libro L’altra Europa. Per un’antropologia storica del Mezzogiorno d’Italia (Guida, Napoli, 2009).
È a partire da quella impostazione che Demarco intende sgomberare il campo del dibattito sul Meridione italiano da una lunga serie di “miti” a base ideologica, stratificatisi nel corso del ventesimo secolo ad opera di “blocchi” culturali egemonici accomunati proprio dal tentativo di superare e soppiantare, nell’approccio ai temi dello sviluppo economico e politico del Sud, la logica pragmatica e riformistica della tradizione liberaldemocratica. Ed è da quella impostazione che nasce l’audace tesi, da lui ora sostenuta in Bassa Italia, secondo cui non soltanto tra il “meridianismo” (tendente ad accomunare il Mezzogiorno italiano al vasto campo dei “Sud del mondo”) e il vario “sudismo” dalle inclinazioni vittimisteassistenzialiste, al di là delle apparenti differenze, esiste un forte elemento di continuità, ma esso va ricondotto alla lunga persistenza, nella cultura italiana, del primo e più tenace tra i “miti” che ne avrebbero decisivamente condizionato la comprensione: l’idea, cioè, di una irriducibile “differenza antropologica” dei meridionali.
Ponendo a confronto un’ampia e variegata gamma di fonti documentarie, da quelle politico-ideologiche a quelle storiografiche fino a quelle letterarie ed artistiche, l’autore risale fino alle origini stesse della questione meridionale, mostrando una serie di “cortocircuiti” attraverso i quali egli cerca di isolare la persistenza di taluni paradigmi interpretativi attraverso i decenni e i secoli.
Il peso di quella categoria di “differenza antropologica” che avrebbe massicciamente influenzato, a suo avviso, la discussione sui rapporti tra il Mezzogiorno e lo Stato unitario si può già ritrovare, agli occhi di Demarco, nell’esclamazione del luogotenente del re Gian Luigi Farini in visita nel Sud appena liberato, o conquistato, dal regno sabaudo: «Questa è Affrica!». La stupita constatazione del funzionario piemontese esprimeva, infatti, la rassegnata idea, radicatasi rapidamente nelle classi dirigenti dello Stato unitario, dell’’impossibilità di mettere insieme in una sola compagine statuale realtà sociali e culturali tanto diverse da essere incompatibili.
In quello stupore, senza dubbio, risiede l’origine del razzismo “nordista” verso il Meridione, e dunque di una serie di pregiudizi che, volta a volta, hanno demotivato o distolto le classi dirigenti settentrionali dall’impresa di integrare a pieno titolo il Meridione stesso e promuoverne lo sviluppo, in base alla convinzione fatalistica che per motivi genetici non vi fosse in fondo nulla da fare, ed anzi che al contrario proprio il Sud rappresentasse semmai una “palla al piede”, un fattore negativo per lo sviluppo del Nord.
Ma contemporaneamente a quel sentimento di rifiuto, l’autore evidenzia come già nei primi decenni dopo l’unificazione nazionale prendesse forma anche una differente declinazione del pregiudizio antropologico: quella offerta proprio degli intellettuali meridionali tesi a giustificare l’arretratezza del Sud – e dunque anche la necessità di politiche speciali nei suoi confronti da parte dello Stato – con cause naturali che rendevano il Meridione e i meridionali irreparabilmente diversi dagli altri italiani.
La teoria di un’inferiorità genetica del Sud si appoggiò in una prima fase alla dominante cultura positivistica, ed in particolare alle applicazioni storico-sociali dell’evoluzionismo darwiniano e alle teorie sull’ereditarietà dei caratteri mentali introdotte in Italia da Lombroso. Essa venne sostenuta soprattutto da scienziati come Giuseppe Sergi ed Alfredo Niceforo, secondo i quali per natura gli abitanti del Sud Italia sono portati, come altri popoli mediterranei, all’indisciplina, al particolarismo, alla rissosità incontrollata, all’indolenza e alla pigrizia. Accanto all’idea di una strutturale ostilità della natura, queste convinzioni avrebbero influenzato non poco anche uno tra i maggiori pensatori meridionalisti di epoca liberale, Giustino Fortunato, conducendolo alla convinzione che il Mezzogiorno si trovasse in uno stato di prostrazione non dipendente da eventi storici o politiche sbagliate, bensì da fattori naturali in qualche misura insuperabili.
È all’interno di questa vena culturale che si inserisce ad avviso di Demarco un’attitudine fortemente radicata negli intellettuali meridionali, ed in particolare in quelli di tendenza politica riformatrice o rivoluzionaria rispetto all’ordine socialepolitico esistente: insomma, alla “sinistra” che in molteplici forme è comparsa sulla scena della storia italiana dal Risorgimento in poi. Questi ultimi, infatti, dalla propria condizione prevalentemente isolata all’interno di un contesto sociale caratterizzato da uno scarso grado di istruzione e dominato da forze socio-culturali estranee alle élites culturali europee hanno tradizionalmente tratto la convinzione di una fondamentale dicotomia tra una classe colta illuminata e minoritaria ed una “plebe” barbara, ignorante e superstiziosa: impermeabile a qualsiasi tentativo di emancipazione e di inserimento nel contesto dello Stato moderno; e quindi governabile soltanto, appunto, da minoranze intellettuali eticamente superiori, sostenute da un “principe”, da un potere politico (esterno?) di indiscussa forza.
La rivoluzione napoletana del 1799, e il Risorgimento vissuto da esuli o da emarginati contro il potere borbonico, avevano rafforzato tale visione semplificata della realtà meridionale. Che, nel contempo, era una visione autocentrica, giocata sulla propria autoinvestitura come cerchia eletta di “sapienti” candidati a divenire platonici “re filosofi”. E che dopo l’unificazione si tradusse prevalentemente nella richiesta di una presenza massiccia dello Stato centrale al Sud per imporre alle recalcitranti plebi i princìpi essenziali della civiltà e della convivenza, prima ancora che le misure adeguate per uno sviluppo economico.
Il determinismo geografico-climatico, unito a quello genetico-antropologico, ha contribuito secondo l’autore in misura considerevole, e fino ad ora non adeguatamente valutata, ad orientare il dibattito novecentesco sull’arretratezza meridionale, indirizzandolo in due direzioni speculari ma complementari. Da un lato, la deresponsabilizzazione complessiva della società civile del Sud, sia rispetto alle cause dei propri ritardi di sviluppo (dovuti, in questa chiave, a fattori ineluttabili), sia rispetto ai rimedi (i quali, per la cronica inferiorità delle popolazioni locali, non potevano che essere concepiti come provenienti dall’esterno). Dall’altro, la tendenza ad analizzare la questione meridionale assegnando in essa un ruolo prevalente al problema dell’individuazione di élites che consentissero di evitare, o quanto meno di limitare al minimo, la necessità di una eterodirezione delle politiche di riequilibrio: dotando finalmente il Mezzogiorno di una classe dirigente e svolgendo un ruolo pedagogico nei confronti del resto della popolazione, ancora imprigionata nella condizione di plebe.
Ne deriva che, seguendo questa seconda direzione, molti tra i maggiori meridionalisti del Novecento, come Guido Dorso o Gaetano Salvemini, sono stati, per usare l’espressione che Demarco mutua dallo storico Massimo L. Salvadori, dei “rivoluzionari senza rivoluzione”: eredi, nonostante tutto, dell’elitarismo giacobino, si affannano nella ricerca di referenti sociali possibili e di forme organizzative, dovendo però sempre constatare loro malgrado la distanza tra il modello di società che hanno in mente e la concreta struttura socio-culturale delle regioni meridionali. Ma in un periodo più vicino a noi ne deriva anche – e questo è uno tra i principali obiettivi polemici di Demarco – la tendenza delle classi politiche locali, selezionate attraverso i nuovi meccanismi di elezione diretta introdotti dagli anni Novanta in poi, a ritenere che i fattori di arretratezza del Sud potessero essere superati d’un balzo «con la professionalizzazione della politica, con la sostituzione del vecchio ceto politico a vantaggio di amministratori esperti e qualificati nominati però direttamente dal vertice istituzionale, con il coordinamento di varie centurie fatte di staff tecnici e gruppi di consulenti» [p. 53].
È il sembiante ultimo assunto da una conformazione mentale-culturale che l’autore chiama del «riformismo senza popolo» [p. 205]. Un approccio che si ritrova, in realtà, in tutta la storia dell’intreccio tra classi politiche e intellettuali nel Mezzogiorno, ma che si definisce pienamente nel secondo dopoguerra. Nei primi decenni della Repubblica, infatti, la classe dirigente del Partito comunista – la forza più influente della sinistra italiana – concepisce il meridionalismo essenzialmente come la continuazione di un disegno illuminista di contrasto a barbariche forze reazionarie. Ed anche nel ceto politico laico-liberaldemocratico – la cui massima espressione si ritrova nel circolo politicointellettuale della rivista «Nord e Sud» - è forte la tentazione di operare un’analoga semplificazione delle forze in campo sotto il segno della “civiltà” e dell’”inciviltà”.
Le due matrici politiche convergono esemplarmente, agli occhi di Demarco, nella rappresentazione di Napoli offerta nel romanzo Ferito a morte di Raffaele La Capria (1961) e nel film di Francesco Rosi (sceneggiato dallo stesso La Capria) Le mani sulla città (1963), in cui viene offerta una contrapposizione a forti tinte tra la negatività totale del laurismo, devastatore del territorio e della bellezza per biechi scopi affaristici, e dall’altra parte la purezza dei militanti (in primo luogo comunisti) in difesa dell’”anima” della città. Perpetuando così nel Novecento il manicheismo della guerra tra giacobini e sanfedisti, e sancendo l’incomunicabilità tra il “riformismo senza popolo” e il “populismo senza riforme” di Lauro, risoltosi successivamente nella gestione clientelare-assistenzialistica dell’esistente da parte delle classi dirigenti della Democrazia cristiana e del centrosinistra.
Ma, appunto, per l’autore l’elitarismo tecnocratico non esclude l’atteggiamento del giustificazionismo deresponsabilizzante e fatalistico. Anzi – e questo è a mio avviso forse il punto più originale nelle argomentazioni da lui proposte – i due atteggiamenti si completano e si implicano reciprocamente. In particolare, l’invocazione di élites demiurgiche tende a cercare supporto proprio in una teoria della “differenza antropologica” del Meridione: perché essa per un verso legittima l’esistenza delle minoranze “predestinate” al potere, per l’altro giustifica già in anticipo quelle minoranze da qualsiasi insuccesso della loro opera di governo, adducendo l’insuccesso stesso alla atavica barbarie delle plebi locali, alla radicata inciviltà contro la quale l’élite illuminata si trova sempre a condurre una lotta eroica, se non disperata.
È in tal senso che Demarco interpreta la tendenza di una parte consistente della cultura politica di sinistra che, a partire dagli anni Sessanta, comincia ad adottare, nell’interpretazione della realtà del Mezzogiorno, le categorie dell’antropologia culturale applicate alle civiltà “altre” rispetto a quella europea-occidentale. Abbandonando l’ortodossia della filosofia della storia marxista – tutta inscritta in un paradigma europeo di modernità – il mainstream intellettuale della sinistra meridionale, soprattutto post-sessantottina, non soltanto tende sempre più a vedere nella cultura meridionale un’alternativa di fondo a quel paradigma. Rispetto all’antropologia di estrazione positivistica, di quella diversità essa rovescia il segno, non vedendola più come un limite o ritardo di sviluppo, ma piuttosto come un patrimonio: l’indice di una civiltà più equilibrata e completa rispetto alla semplicistica idea di organizzazione economica, sociale e politica “moderna” imposta dal “Nord”.
È su questa strada, sulla scorta di varie influenze culturali – da Levi-Strauss alle critiche filosofiche della modernità occidentale ispirate a Nietzsche, Heidegger, Foucault, Derrida, alla difesa delle sacche di arcaismo culturale operata da Pier Paolo Pasolini contro l’”omologa - zio ne” – che a partire dagli anni Ottanta del Novecento si sviluppa un movimento di pensiero racchiuso dal punto di vista filosofico nella formula del “pensiero meridiano” di Franco Cassano, e dal punto di vista della speculazione sui temi socioeconomici e politici in quella del “Mezzogiorno senza meridionalismo” a cui guardava il gruppo di intellettuali riuniti nella rivista “Meridiana” e nella casa editrice “Donzelli”. Due prospettive unite – al di là di varie sfumature – dalla tesi secondo cui i presupposti del meridionalismo classico debbono considerarsi superati, in quanto il problema fondamentale del Mezzogiorno contemporaneo non è quello di adeguarsi forzatamente ad un modello culturale, economico, sociale imposto dall’esterno, e che non gli appartiene, ma quello di trovare autonomamente la propria strada allo sviluppo (se non, come nell’impostazione di Piero Bevilacqua, rifiutare addirittura la stessa validità della categoria di “sviluppo”).
Invocare un Sonderweg economico e politico delle regioni meridionali implicava però il riconoscimento di una piena capacità di autogoverno alla società civile di quelle regioni, e quindi il rovesciamento del giudizio liquidatorio dato della “plebe” nella tradizione illuministico-giacobina. Più in particolare, attraverso la diffusione del pregiudizio al contrario di un “popolo” sempre buono, si apriva la porta della legittimazione culturale ad una nuova generazione di leader politici. Ma, è qui il punto centrale, se la società civile del Sud Italia si caratterizza proprio in quanto “diversa” rispetto agli standard dei regimi rappresentativi occidentali, ci si potrà attendere che la leadership politica locale da essa investita sia corrispondente a quegli standard? O non si dovrà invece presupporre che la classe politico-amministrativa elettiva di quelle regioni debba svolgere invece il ruolo pedagogico di “demiurghi” rispetto ad un popolo di “buoni selvaggi”?
In questo senso, l’interpretazione proposta da Demarco si pone in continuità, ed in una logica complementare, rispetto a quella offerta in un altro recente saggio di riflessione sulla storia politico-culturale meridionale, quello di Adolfo Scotto di Luzio intitolato Napoli dei molti tradimenti (Il Mulino, Bologna, 2008). Se Scotto di Luzio racconta per così dire “dall’interno”, autobiograficamente, l’affermarsi nella cultura napoletana del mito populista di una plebe depositaria di valori positivi, alternativi a quelli di una civilizzazione “colonialistica”, Demarco pone in connessione quel mito proprio alla continuità del paradigma giacobino. Nelle classi dirigenti degli ultimi decenni, ai suoi occhi, il vecchio disprezzo intellettualistico della plebe non è in contraddizione con la nuova tendenza all’adulazione populistica di essa, ma vi si mescola, dando luogo ad esiti complessi e contraddittori.
Sta di fatto che la tendenza culturale del “meridianismo” si sposa naturalmente con la nascita delle nuove classi politiche di sinistra al governo di comuni e regioni meridionali nell’ultimo quindicennio: ed in particolare con l’esperienza di Antonio Bassolino a Napoli, che per molto tempo ne ha rappresentato simbolicamente la sintesi ideale. E proprio il cortocircuito che ne è derivato tra il “direttismo” elitario di sindaci e governatori meridionali e l’inclinazione antropologico-populista del postmeridionalismo “meridianista” ha condotto, secondo l’autore, ad un paradosso senza uscita: «Il popolo, insomma, o ha sempre torto, perché vittima del proprio atavismo; o ha sempre ragione, perché oggetto di sempreverdi visioni classiste. L’assenza di un’analisi realista ha finito per indebolire ogni ipotesi riformista. Se il popolo ha sempre ragione, perché correggerlo? E se è antropologicamente incorreggibile, perché tentare di modificarne le inclinazioni?» [pp. 162-163].
Sta proprio in questo paradosso, ad avviso di Demarco, la chiave per comprendere il fallimento delle nuove classi politico-amministrative meridionali, paralizzate dallo scontrarsi tra aspirazioni catartiche e paralisi progettuale in funzione di una gestione puramente cosmetica degli equilibri socio-economici esistenti. In particolare, lo scacco della classe dirigente bassoliniana a Napoli, che come nel momento della gloria aveva rappresentato il modello-guida per quelle di altre città e regioni, anche nel momento del crollo – legato alla drammatica crisi dei rifiuti esplosa tra 2007 e 2008 nel capoluogo partenopeo – ne ha riassunto paradigmaticamente i limiti.
Nello spazio tra “riformismo senza popolo” e “populismo senza riforme”, semmai, Demarco indica uno stretto sentiero di mezzo, reso quasi invisibile dalla sovrapposizione di ideologie e mitologie: quello esemplificato letterariamente, negli anni Sessanta, dal punto di vista del narratore nel romanzo Donnarumma all’assalto di Ottiero Ottieri. In quel libro il protagonista, dirigente dell’azienda Olivetti incaricato di selezionare il personale locale per il nuovo stabilimento nei pressi di Napoli, si scontrava drammaticamente con la persistenza di una mentalità e di pratiche sociali arretrate, premoderne, connesse ad una concezione della società fondata sul familismo, sull’ineguaglianza, sulla prepotenza dei più forti. Questi aspetti di arretratezza socio-culturale nel romanzo non venivano negati. Ma rispetto ad essi la risposta di Ottieri non era un’aspirazione palingenetica, affidata magari ad un demiurgo illuminato; e neppure, dall’altra parte, un rovesciamento di segno dell’arretratezza in un’ottica di contrapposizione antropologico-culturale al modello di modernità occidentale. Era, invece, l’indicazione pragmatica della costruzione di strutture – economiche, nel caso specifico – all’interno delle quali, con la consuetudine al lavoro e all’analisi dei problemi concreti, la mentalità e le categorie socio-culturali meridionali potessero svilupparsi gradualmente in senso europeo e occidentale, permettendo l’emergere di dinamiche sociali finalmente emancipate dalle pratiche assistenzialistiche e clientelari.
È a quel riformismo realista, non elitario né populista, che Demarco richiama la cultura politica meridionale, se ancora essa conserva una sua autonoma capacità di elaborazione scientifica scevra da assoggettamenti ideologici; e accanto ad essa le classi dirigenti e politiche del Sud. Il lettore non può, intanto, che apprezzare lo sforzo – molto più cospicuo di quanto la facile leggibilità del volume lasci trasparire – di fare ordine in una vicenda delicata e complessa, riaffermando la pensabilità di categorie razionali di analisi dei problemi meridionali.
Un solo elemento, nella trattazione di Demarco, genera qualche difficoltà di comprensione: l’uso della categoria di “sinistra” per raggruppare tutte le espressioni politiche, ideologiche e culturali della visione fondata sulla “differenza antropologica”. L‘impressione è che il termine sia forse troppo generico per tenere insieme fenomeni tanto differenziati: dal positivismo lombrosiano a Fortunato, Dorso, Gramsci, ai comunisti di «Cronache meridionali», a Rosi e La Capria, a Pasolini, Fofi, Cassano, fino a Bassolino e al suo “partito personale”. In un secolo e mezzo il quadro politico e intellettuale italiano ha subito tali e tante trasformazioni che nella categoria di “sinistra” sono molto maggiori le differenze che le continuità. Forse, però, il significato che Demarco vorrebbe riassumere nella parola “sinistra” è soprattutto quello di un approccio intellettualistico alla politica e, in specie, ai problemi dell’arretratezza e dello sviluppo: l’approccio “giacobino”, minoritario, da “consiglieri del principe”, che esprime il fondo oscuro dell’ideologia come idea del governo “scientifico” della società e “ingegneria sociale” operata da una casta di “illuminati”.
Si potrebbe addirittura affermare, in questo senso, che la vicenda raccontata da Demarco va ben oltre la messa in evidenza del peso negativo che un tale approccio ha avuto sulla storia del Mezzogiorno d’Italia. Essa si configura come un vero e proprio case study, un saggio esemplare di storia dell’ideologia nel mondo contemporaneo. Nel volume infatti viene descritto con chiarezza il processo attraverso cui una radice illuministico-giacobina si salda, nel corso del ventesimo secolo, ad una “religione” intellettuale che nega alla radice i princìpi etico-culturali fondanti della civiltà occidentale, in favore della suggestione che spinge ad individuare mondi e umanità nuovi, secondo la traccia già rousseauiana, in uno “stato di natura” incontaminato.
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