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I settanta anni di Mediobanca. Quale futuro?
di Riccardo Gallo
Premessa

Nel giugno del 2000 morì Enrico Cuccia, presidente onorario di Mediobanca e prima, dal 1946 al 1982, direttore generale. Come ho dimostrato in un recente lavoro (Gallo 2016), nel biennio 1998-99 era accaduto che in Italia gli imprenditori industriali avevano tirato i remi in barca e avevano smesso di investire in misura idonea a preservare l’apparato produttivo del paese; d’altronde l’indice di incertezza aveva raggiunto livelli tanto alti da suggerire il rinvio di nuovi investimenti; inoltre, gli indici internazionali1 di competitività del paese, dopo aver raggiunto livelli massimi, stavano iniziando una discesa che sarebbe proseguita senza freni per i successivi quindici anni, e segnalavano una perdita di convenienza delle iniziative economiche.
Tutto ciò era stato causato negli anni Novanta, questa la tesi di fondo del lavoro, dal progressivo smantellamento (quantomai opportuno ma altresì imposto dal vincolo estero) di quegli strumenti di intervento pubblico nella economia reale che erano stati allestiti dal Fascismo negli anni Trenta in risposta alla “grande crisi” del 1929, e che nel dopoguerra erano stati dapprima razionalizzati ma poi sfruttati dai governi a guida democristiana, ingordi di potere: dalle partecipazioni statali agli istituti di credito industriale, dal protezionismo ai comitati interministeriali, fino alla possibilità di svalutazioni competitive della lira e al tentativo, fallito a fine 1998 da un governo guidato dal segretario dei democratici di sinistra, di adottare una organica politica per la concertazione.
Dunque Cuccia morì al termine di un secolo travagliato da distruzioni, ricostruzioni e interventismo statale, e all’inizio di un nuovo secolo in cui il nostro paese senza più reti di protezione scoprì all’improvviso di non esser pronto a gareggiare a viso aperto nel mercato globale.
Nei primi quindici anni del nuovo secolo, l’Iri è stato liquidato, l’Efim commissariato e sciolto, l’Eni e l’Enel ridimensionati, le associazioni sindacali (Confindustria, Associazione bancaria italiana, Organizzazioni dei lavoratori) hanno mostrato la loro impotenza, la Banca d’Italia ha perso competenze e peso politico-istituzionale, le banche commerciali sono entrate in crisi profonda. Vediamo cosa è successo a Mediobanca.
Nel 1996-97 il gruppo vantava ricavi finanziari per 1,4 miliardi di euro, un risultato netto per 150 milioni, corrispondente al 10 per cento dei ricavi, un valore delle partecipazioni azionarie pari a 1,8 miliardi, un capitale netto di 4,6 miliardi, aveva attività di banca d’affari per un controvalore complessivo delle operazioni pari a 24 miliardi (costituite per il 60 per cento da consorzi di garanzia e collocamento di titoli azionari), un organico di poco più di mille dipendenti. Venendo ai giorni nostri, nel 2015 il gruppo ha avuto ricavi finanziari per 966 milioni (meno 32 per cento a moneta corrente), un risultato netto per 323 milioni (inalterato se si tolgono gli utili su partecipate, 168 milioni, ottenuti soprattutto grazie ad Assicurazioni Generali), un capitale netto rafforzato e pari a 8,5 miliardi, ha avuto attività di banca d’affari per un controvalore complessivo delle operazioni pari a 66 miliardi (però per appena il 14 per cento attraverso consorzi di garanzia e collocamento di titoli azionari, il cui valore assoluto è stato largamente inferiore al 1997), un organico di oltre 4 mila unità, quasi quadruplicato. In poche parole, in venti anni, dei quali quindici senza la guida di Cuccia, Mediobanca si è rafforzata patrimonialmente (più capitale netto), ha subìto un declino di attività (meno ricavi e meno attività di banca d’affari), ha salvato la redditività, nel frattempo ha sovradimensionato la struttura organizzativa (organico quadruplo), in prospettiva è sbilanciata.
Nei medesimi ultimi venti anni sono stati pubblicati numerosi lavori per così dire ritrattistici di Cuccia e storiografici su Mediobanca, analitici, corposi, ricchi di documentazione, ad opera sia di politici e uomini di cultura amici e profondi conoscitori della banca (Napoleone Colajanni 2000, Marcello De Cecco e Giovanni Ferri 1996, Giorgio La Malfa 2014) sia di giornalisti e politologi (Giancarlo Galli 1995, Fabio Tamburini 2000). Di recente, sulla storia di Mediobanca è uscita un’intervista di Fulvio Coltorti (Giovannetti 2016), interessante anche perché per la prima volta la testimonianza è venuta da persona interna all’organizzazione, alto dirigente fino a pochi anni fa, responsabile dell’Archivio storico, e prima per lungo tempo dell’Area Studi, dunque fiduciario di Cuccia, Cingano e Maranghi. La letteratura su Mediobanca è ampia.
Tuttavia, tranne alcuni cenni di Coltorti nelle sue conclusioni, meritevoli di discussione, nessuno degli altri lavori contiene riferimenti al declino di Mediobanca, né ha potuto svolgere un’analisi fredda delle sue cause. Tranne De Cecco e Ferri, tutti gli altri hanno mirato a squarciare il velo dei segreti delle vicende, più che analizzare dinamicamente e sistemicamente il ruolo di Mediobanca nel mercato dei capitali e nel sostegno alle imprese.
In questo articolo cerco di aprire un filone critico su questo aspetto del declino e, solo a questo scopo, ripercorro brevemente la storia di Mediobanca, dalle sue origini nel 1946 fino alla morte di Cuccia nel 2000, e da allora a oggi. Per rendere questo mio tentativo di lettura più facile, anch’io come gli altri autori supporto l’analisi con il racconto fedele di situazioni da me vissute personalmente. In ciò sono spinto e al tempo stesso agevolato dal fatto che da giovane, negli anni Settanta, feci gavetta all’Imi come ingegnere (istituto e funzione, questi, da molti contrapposti a Mediobanca), e nei decenni successivi, in qualità di dirigente ministeriale, economista industriale, analista finanziario, sono stato un convinto portatore attivo dell’idealità etico-politica del ruolo pubblico-privato di Mediobanca e ho conosciuto e attraversato molte delle vicende, degli ambienti, dei personaggi che hanno animato la storia di Mediobanca.



Ruolo originario di Mediobanca

Anche sulla base della documentazione da lui preparata per il volume di La Malfa (2014), Coltorti spiega che subito dopo la fine della seconda guerra mondiale c’era bisogno di «una banca che agisse acquistando e vendendo azioni e partecipasse al capitale di rischio delle aziende per riavviare l’economia e governare la ricostruzione. Per i finanziamenti a lungo termine era stato creato, con capitali statali, l’Imi che interveniva però con una gestione burocratica e sovente inframmettenze politiche a sostegno delle aziende2». Soci costituenti di Mediobanca furono le tre banche di interesse nazionale (Bin), cioè Banca commerciale, Credito Italiano, Banco di Roma, tutte controllate dall’Iri e quindi indirettamente dallo Stato, ma che Cuccia ebbe garantita la possibilità di guidare Mediobanca secondo pratiche in uso nel settore privato, quindi con una totale indipendenza. Anzi, appena i tempi furono maturi, Cuccia e l’avvocato Adolfo Tino fecero un viaggio a New York alla ricerca di possibili partner e nel 1955 alcuni primari soci privati, stranieri ed estranei alle Bin, entrarono nella compagine azionaria di Mediobanca. Un paio d’anni dopo Tino ne divenne presidente.
Questi concetti spiegano bene, e la cosa mi pare rilevante, che nel 1946 Mediobanca nacque con una macroscopica, interessante, apparente anomalia: infatti da un lato ricevette una missione pubblicistica (riavviare l’economia e governare la ricostruzione del Paese), dall’altro ebbe licenza di perseguire la finalità con l’adozione di logiche e comportamenti privatistici. Dai saggi citati, sembra lecito arguire che questa anomalia fosse finalizzata ad aumentare l’efficienza e a ridurre il rischio di inframmettenze politiche inevitabili tutte le volte che il controllo fosse statale. Dunque chi concepì Mediobanca nel 1946, ripeto, in uno schema liberalcattolico, era convinto che il nodo pubblico-politico fosse foriero di negatività e che per conseguire una finalità pubblica fosse meglio comportarsi come privati responsabili, aggiungo io “illuminati”, come si diceva un tempo, cioè non egoisti, attenti al profitto ma sensibili all’interesse generale del paese, insomma diciamolo francamente non del tutto tipicamente privati.
Questo principio di “apparente anomalia” è considerato tuttavia validissimo da accademici del diritto pubblico in economia. Sabino Cassese (2016) pone una domanda retorica: «non è meglio assicurare il fine pubblico e realizzarlo con strumenti privatistici, invece che in modi burocratici?».
Ma esisteva un’altra ragione, ancora più importante, che chiarisce l’assoluta necessità che lo Stato non svolgesse alcun ruolo nell’operatività di Mediobanca. Secondo De Cecco e Ferri (1996), l’attività tipica delle banche d’affari è costituito dal governo delle imprese mediante il finanziamento, la consulenza e l’intervento sugli equilibri di controllo, quella che si chiama corporate governance. In Italia, deputati a questa funzione sarebbero stati gli istituti di credito mobiliare, come l’Imi3. Invece, a parte il caso isolato di Mediobanca che si fece scudo con logiche e comportamenti privatistici, la presenza dello Stato come garante di fondi alle imprese senza adeguate condizionalità finì con inibire gli istituti di credito mobiliare nel divenire insider alle imprese finanziate e ne precluse l’esercizio della corporate governance. L’insufficienza delle banche d’affari ha frenato lo sviluppo della finanza privata e, con ciò, le prospettive di crescita delle imprese.



Missioni in Usa e a Lisbona

I diversi autori citati analizzano molto opportunamente l’importanza storica e prodromica di due missioni svolte all’estero da Cuccia, durante e subito dopo la seconda guerra mondiale.Nel novembre 1944 il governo Bonomi inviò negli Stati Uniti una delegazione di tecnici con lo scopo di chiedere aiuti per la ricostruzione4. La delegazione fu guidata da Raffaele Mattioli, presidente della Banca commerciale, assistito dal giovane Cuccia e composta non casualmente da liberali, azionisti, cattolici, tutti antifascisti e anticomunisti. La missione ebbe grande successo, come è ben noto. La composizione della delegazione voluta da Mattioli e Cuccia dimostra, a mio avviso, che il merito dell’aver ancorato la ricostruzione del Paese all’Occidente libero e capitalista debba esser riconosciuto al collante tra cattolici e laico-liberali, per la prima volta sperimentato in quella circostanza. Si tratta dello stesso collante che negli anni Cinquanta diede sostanza politica ai governi centristi presieduti da Alcide De Gasperi.
In precedenza, durante la guerra c’era stata una missione a Lisbona compiuta da Cuccia in qualità di dipendente della Banca Commerciale. Coltorti riferisce che Cuccia portò con sé e segretamente consegnò al diplomatico americano Kennan una nota stilata da Ugo La Malfa e Adolfo Tino contenente una pregiudiziale avverso i Savoia5.



Incontrollabilità di Mediobanca

Nel corso dei decenni, numerose personalità accusarono il vertice di Mediobanca di fare indebitamente politica e di non avere titolo per criticare le altrui inframmettenze politiche. Aver qui sopra correlato tre questioni (le due anzidette missioni, l’amalgama laico-liberal-cattolico, il merito indiscusso dei promotori di Mediobanca ad aver ancorato la ricostruzione del paese all’Occidente liberale e capitalista), ci porta a riflettere su tale accusa. La quale appare debole perché Mediobanca era nata dopo e anzi sulla scia di quelle missioni estere, e dunque era stata costituita proprio per consentire ai suoi promotori di esplicare (liberamente e senza più alcuna segretezza bellica) il loro potenziale di sviluppatori finanziari-industriali, pionieri delle banche d’affari in Italia, al riparo dalla presenza inibitrice dello Stato, ma in un quadro liberal-laico-cattolico. Connotazione questa che sembra avesse la caratura di una sorta di marchio di qualità, mandato istituzionale, di rango superiore alla deprecabile lottizzazione partitica di un qualunque manager aziendale. Questa peculiarità, a garanzia delle stesse imprese finanziate, e per una sorta di rispetto istituzionale, non avrebbe potuto né dovuto essere messa in discussione da chicchessia.
Altre personalità, soprattutto della Sinistra Dc, espressero perplessità in termini solo apparentemente diversi ma in realtà equivalenti, quando lamentarono l’incontrollabilità di Mediobanca da parte dello Stato. Ebbene, questa incontrollabilità derivava dall’anomalia prima sottolineata (logiche e comportamenti privatistici per conseguire finalità pubblicistiche). Peggio, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, quella anomalia fu accentuata dall’ingresso sia pur minoritario di soggetti privati nella compagine azionaria. Quando parlo di personalità della Sinistra Dc, alludo non solo a Nino Andreatta, ma soprattutto a Romano Prodi il quale, nella sua qualità di presidente dell’Iri (in ciò indicato dal segretario della Dc De Mita), socio di controllo delle tre Bin azioniste di Mediobanca, negli anni Ottanta tentò più volte (ma per fortuna vanamente) di far valere il controllo societario per riportare Mediobanca sotto la sua catena di comando politico-manageriale.
Il 28 maggio 1991, l’allora presidente dell’Iri Franco Nobili, “andreottiano” secondo schematizzazioni correnti, riunì informalmente il Comitato di presidenza dell’Istituto, di cui da un mese io ero vicepresidente, e confidò la sua intenzione di proporre la privatizzazione di Mediobanca, cioè la cessione delle partecipazioni in mano alle Bin (Gallo 1992, pp. 78-79). Era chiaramente un sondaggio sulle possibili reazioni. Così, pochi giorni dopo, nel corso di una colazione offertami da Cuccia nella foresteria di Mediobanca e da tempo programmata, gli riferii la cosa, lui rimase assolutamente sorpreso, non gradì per nulla, impallidì e disse che un eventuale simile cambiamento sarebbe equivalso alla fine di Mediobanca. Come è ben noto e come detto, Cuccia non privilegiava nessuna delle due anime di Mediobanca, pubblica quanto all’azionariato di maggioranza e privata quanto a logiche e comportamenti, le considerava inscindibili, entrambe indispensabili e strumentali alla missione originaria. Nobili non portò poi mai in sede istituzionale quella sua proposta.
I cambiamenti si verificarono solo due anni dopo, quando l’Iri – per vincolo estero, ormai trasformato dal governo Amato in società per azioni e, uscitone io, nuovamente guidato da Prodi - varò la privatizzazione delle Bin azioniste di Mediobanca. Cuccia dovette trovare sponde amiche raggruppando alcuni personaggi, ciascuno dei quali richiese un prezzo. «Occorreva mantenere l’appoggio delle Bin (soprattutto le due milanesi) e ottenere quello di un gruppo di privati che fossero disposti a farsi parte diligente nell’operazione. Fu così che nacque la Mediobanca privata: una Mediobanca che avrebbe però proseguito a lavorare in totale autonomia sotto un nuovo patto di sindacato»6.



Mediobanca e le tecnologie industriali

Negli anni Cinquanta, giustamente convinta che l’industria italiana nel dopoguerra fosse tecnologicamente non competitiva, Mediobanca varò una serie di iniziative societarie per assistere le imprese in uno sforzo sistemico volto a superare il divario e acquisire tecnologie dagli Stati Uniti7. Naturalmente, aggiungo io, bisognava avere la competenza culturale. Per esempio, quando a inizio anni Sessanta l’Eni e l’Efim costituirono la Siv, Società italiana vetro con sede a San Salvo (Chieti), i loro dirigenti andarono negli Stati Uniti e acquistarono il brevetto di produzione Libbey Owens Ford dalla casa automobilistica americana, la quale impiegava il modello integrato della produzione di massa e nelle sue fabbriche produceva le materie prime delle materie prime, compreso il vetro per lunotti, laterali e parabrezza. Il processo venduto all’Italia era però esso stesso obsoleto, si basava su un ciclo produttivo dispendioso, in un impianto lungo trecento metri (forno fusorio, molatura, lustratura e taglio della lastra di vetro), pieno di scarti, inquinante, molto ma molto meno competitivo di quello moderno e compatto denominato float glass della britannica Pilkington (massa vetrosa colata su un bagno di stagno fuso in atmosfera inerte di azoto). La Siv imbarcò perdite di gestione ciclopiche: chiuse con un deficit di 2,6 miliardi di lire l’esercizio 1970, di 4,2 miliardi il 1971, 3,6 il 1972, 2,9 il 1973. Un disastro. Non rischiava il fallimento sol perché lo Stato azionista ripianava le perdite al di fuori di ogni vincolo finanziario e di ogni criterio di economicità. I dipendenti della società erano più di tremila.
Nel 1975 la Siv chiese aiuto all’Imi per ristrutturarsi. Io ingegnere chimico consulente tecnico dell’Istituto fui mandato in missione e capii tutto con estrema facilità. Non era poi tanto difficile. La Siv cambiò l’amministratore delegato e quello nuovo, Franco Gringeri, smantellò gli impianti con tecnologia Ford, operò un coraggioso “write off” di bilancio, investì nel float glass Pilkington e con una gestione aziendale seria inanellò un quinquennio di redditività strabiliante. I bilanci parlano chiaro. Nel 1977 fu raggiunto il pareggio economico di gestione, nel 1978 si ebbe un utile netto di 4,3 miliardi, nel 1979 uno di 11 miliardi, oltretutto dopo aver fatto ammortamenti anticipati (Gallo 2015).
Coltorti sostiene tuttavia una tesi diversa a proposito del cosiddetto “lavoro industriale”: non era nella filosofia di Cuccia, il quale non si attrezzò né con le competenze né con gli strumenti; Mediobanca non assunse mai ingegneri contrariamente a quanto fece l’Imi, perché convinta che la valutazione del merito di credito spettasse a coloro che mettevano i denari e non a coloro che “giravano le manovelle”; infine, i risultati, misurati dal lato delle perdite sui crediti concessi, furono a schiacciante favore di Mediobanca.
Prodi (2015) elogiò il mestiere degli ingegneri dell’Imi di un tempo. Quarant’anni prima, stando all’Imi, avevo pubblicato a firma congiunta con Prodi un lavoro contenente i risultati di una nostra ricerca sull’industria ceramica (Gallo e Prodi 1976).



Mediobanca e Imi, le Fibre chimiche

Per amore della verità, è doveroso aggiungere che la gestione dell’Imi era parsimoniosa, attenta a contenere le spese. Per esempio, quando i tecnici si recavano in missione a Milano per svolgere l’istruttoria delle domande di finanziamento, erano tenuti a pernottare in una foresteria che in realtà era l’abitazione in via Fatebenefratelli del custode dell’ufficio di piazza San Fedele; dovevano comprimere i tempi e tornare in ufficio a Roma, all’Eur, la mattina presto dopo viaggi estenuanti nei meno costosi vagoni letto (Bragantini, Gallo e Gamberale 2004). Quanto alle inframmettenze politiche, bisogna distinguere tra l’attività ordinaria, esente da pressioni esterne, e quella di finanziamento a medio-lungo termine dei clienti aventi una rilevanza nazionale inevitabilmente socio-politica. Ma questo valeva (e vale) per molti. Vale ancora oggi per chi fa credito a imprese da sempre fortemente deficitarie (Ilva, Alitalia, tanto per fare un esempio in cui i proprietari della prima hanno accettato di perdere altri soldi nella seconda per compiacere il governo in cambio di benevolenze verso la prima, e le banche convertono a capitale – peraltro subito perduto - il credito da loro dato sia alla prima che alla seconda, improvvidamente, sempre per compiacere il governo di turno). Certo, va dato merito a Mediobanca di aver saputo e potuto nei settant’anni di storia resistere a pressioni esterne (perfino Mattioli non ci riuscì come testimonia il caso Einaudi), ma dubito che abbia saputo resistere a pressioni per così dire interne, nel senso che talvolta o spesso ha sostenuto finanziariamente grandi clienti-soci in crisi.
Anche su questo tema, riferisco una vicenda da me vissuta. Nel mese di aprile 1980 il neo-ministro del Bilancio Giorgio La Malfa chiese all’Imi di avvalersi della mia opera e così fui distaccato al Ministero. Nelle settimane precedenti presso l’Imi avevo finito l’istruttoria di due domande di finanziamento agevolato, a valere sulla legge 5 dicembre 1978 n. 787, presentate da Snia Viscosa e da Montefibre. Per ciascuna delle due avevo concluso che il finanziamento agevolato potesse essere accordato alla condizione di una previa ricapitalizzazione per l’importo di 100 miliardi di lire. Passato al Ministero, che tra l’altro per legge era sede del Cipi, Comitato interministeriale per la politica industriale, trovai che i due dossier erano appena arrivati per essere esaminati. Il ministro mi chiese cosa ne pensassi e io lo relazionai. Entrambe le società erano assistite da Mediobanca. Il ministro invitò in due separati incontri, cui io fui ammesso, prima il presidente di Snia Pietro Marzotto, accompagnato da Cuccia, e la settimana dopo il neo-presidente di Montedison Mario Schimberni, anch’egli accompagnato da Cuccia. Il ministro fece sue le mie conclusioni, Marzotto signorilmente non batté ciglio, Cuccia tacque ma con sguardo concorde. La settimana dopo, Schimberni dichiarò l’indisponibilità di Montedison a varare un aumento di capitale di Montefibre. Il ministro si giustificò dicendo che chiedeva ciò per allontanare il rischio che Montedison mollasse le fibre allo Stato. Schimberni rispose che se avesse voluto lui le avrebbe mollate con o senza il permesso del ministro. Il quale contro-rispose che nel caso si sarebbe dimesso. Cuccia non fiatò. Il ministro non mantenne la posizione. Il Cipi approvò entrambe le domande, alla condizione di una ricapitalizzazione solo di Snia e non di Montefibre. La quale nel corso degli anni fu mollata all’Eni, gruppo di Stato, dalla Montedison del dopo Schimberni. Il risanamento di Montedison operato da Schimberni funzionò e, dopo una dura sequenza di perdite, 1.883 miliardi di lire nel 1981-1984, i conti tornarono in utile nel 1985. Ma poi lo stesso Schimberni tentò di trasformare Montedison in public company, anche attraverso una scalata ostile a Mediobanca8. Cosa questa che molto fece soffrire Cuccia.
I due incontri da me citati avvennero più o meno a giugno 1980, certamente un paio di mesi dopo la nascita del governo e dopo che io – per poter incontrare Cuccia - avevo dovuto fare una quarantena per debellare il morbo della mia provenienza dall’Imi. Cuccia era amabile, spiritoso e in privato si divertiva ad ascoltare racconti. Quando gli parlavo dell’Imi mostrava per quell’Istituto più rispetto di quanto non ci si aspettasse e comunque meno di quanto io sapevo che l’Imi a sua volta nutrisse per Mediobanca.



Panfilo Britannia e privatizzazioni

Nel corso degli anni fu dedicata da molti osservatori enorme e allarmata attenzione a un convegno svolto il 2 giugno 1992, organizzato da una banca d’affari sul panfilo Britannia, di proprietà della Corona inglese e spesso noleggiato per eventi similari (Sergio Romano 2009). Con una mentalità vecchia da socialismo reale, si illazionò che politici e banchieri italiani in quella circostanza avessero promesso a banche d’affari anglosassoni la svendita dell’industria di Stato. Sorprendentemente, perfino un commentatore equilibrato come Sergio Romano aggiunse: «La crociera fu breve e pittoresca, con una orchestrina della Royal Navy che suonava canzoni nostalgiche degli anni Trenta e un lancio di paracadutisti da aerei britannici che si staccarono in volo da un incrociatore e scesero come stelle filanti intorno al panfilo di Sua Maestà». Coltorti lamenta che «Mediobanca non fu invitata a questa anteprima del banchetto delle privatizzazioni… con intervento iniziale dell’allora direttore generale del Tesoro Mario Draghi. Presenti i vertici di Iri, Eni ed Enel. Andreatta chiese chi nelle public companies inglesi nominasse il management: gli fu risposto che una volta insediatosi il management poi non cambia più perché l’azionariato diffuso non trova il modo di coagulare scelte di cambiamento».
Avendovi io partecipato come capo delegazione dell’Iri, che dei tre enti a p.s. era il maggiore, innanzitutto smentisco la descrizione fantasiosa fatta da Sergio Romano. Erano presenti almeno due giornalisti importanti, Massimo Gaggi ed Enrico Romagna Manoja, con i quali nel corso degli anni sono tornato più volte sull’argomento, a testimonianza del fatto che la riunione non ebbe alcun carattere di segretezza, né di colore. Tant’è vero, che il Corriere della Sera vi dedicò un servizio il giorno dopo, 3 giugno. Quello non fu l’unico convegno né il più determinante, ma indubbiamente aprì in Italia il dibattito sul processo di privatizzazione. La Gran Bretagna era all’avanguardia avendo il governo di quel paese fatto molto in materia ben prima del 1992. Ad esempio, cinque anni prima io avevo scritto tre articoli per recensire altrettanti libri di economisti inglesi (Gallo 1987).
Poiché gli inviti a un evento in genere li fa chi ospita, la banca d’affari in questione ritenne di non invitare i suoi concorrenti. Dubito che Mediobanca avrebbe fatto in modo diverso. Tra i partecipanti,Nino Andreatta e Luigi Spaventa fecero brevi interventi. L’anno dopo, in un mio scritto (Gallo 2013), in cui criticai le public company all’italiana, usate come artifizio per fare finte privatizzazioni, rivelai la domanda rivolta da Andreatta e la relativa risposta. Nel 1993 il governo Ciampi istituì il Comitato permanente per le privatizzazioni ed elaborò un programma pluriennale di operazioni da fare. L’Efim mise subito in vendita la Siv. Certo si trattò di un affare di poco conto, ma in quell’operazione si avvalse proprio di Mediobanca. Chi fu l’acquirente? La Pilkington, assieme alla Techint. La Pilkington, cioè la detentrice del processo float glass adottato tardivamente, venti anni prima, dalla Siv grazie alla ristrutturazione finanziata dall’Imi, anche sulla base dell’istruttoria di quel giovane ingegnere chimico.
Prima che il governo Ciampi varasse nel 1993 il processo di privatizzazioni e iniziasse, vi fu un’altra interessante operazione, impostata nel 1991 e perfezionata nel 1992. L’Iri vendette la Cementir per gara pubblica davanti a un notaio, secondo una procedura da me stesso suggerita. Avrei da raccontare molti aspetti interessanti di quella vicenda, con risvolti anche delicati. Qui mi limito a ricordare che l’operazione fu ipotizzata dal presidente Nobili lo stesso 28 maggio in cui ci parlò di Mediobanca. Alla gara parteciparono inizialmente in molti e alla fine, dopo eliminatorie varie, rimasero in due: a) una cordata tra Unicem (facente capo alla finanziaria della famiglia Agnelli) e Buzzi; b) il gruppo Caltagirone. Cuccia mi disse che era assolutamente contrario che Agnelli simettesse a fare una gara con Caltagirone e che gli avrebbe consigliato di lasciar perdere. Agnelli fece con me una sola osservazione: mancando poco al varo parlamentare della normativa su Opa (offerta pubblica di acquisto) e Opv (offerta pubblica di vendita), gli sembrava poco elegante acquistare per gara il controllo azionario di una società, ignorando i soci di minoranza. Ne rimasi affascinato.
Evidentemente, Agnelli non seguì i consigli di Cuccia e superò le sue remore, perché l’Unicem-Buzzi partecipò, ma dopo molti rilanci si fermò. Nell’immaginario collettivo Agnelli perse nei confronti di un romano e Caltagirone si aggiudicò il controllo della Cementir sia pur pagando uno sproposito. Quella forse fu la prima occasione in cui Agnelli cominciò a non seguire più i consigli di Cuccia, sbagliando.



Mediobanca alla ricerca incerta di un nuovo ruolo

Una questione importante sollevata da Coltorti è: aprire le porte nel 1993 alle più esperte banche d’affari costituì un’occasione per far crescere le nostre case analoghe, a partire da Mediobanca, che aveva l’indiscussa leadership del mercato domestico? E, aggiungo io, consentì simmetricamente alle altre banche d’affari di acquisire la conoscenza della realtà italiana che Mediobanca vantava quasi in esclusiva? Le privatizzazioni italiane degli anni Novanta, con Ciampi ministro dell’Economia e Draghi presidente del neonato Comitato privatizzazioni, favorirono l’apertura del mercato della finanza straordinaria o equivalsero a un mero esproprio della posizione dominante di Mediobanca a favore delle banche estere? Come reagì l’ex incumbent Mediobanca? Nessuno dei lavori qui citati ha trattato la questione.
Mediobanca presentò un libro verde sulle privatizzazioni. Anche alcune banche d’affari inglesi avevano predisposto qualche dossier, ma l’avevano portato al venditore, cioè all’Iri e all’Eni. Mediobanca invece lo presentò al governo, a Ciampi e Draghi. Con questa iniziativa, non commissionata, spontanea, un po’ disperata, è possibile che Mediobanca cercasse di recuperare terreno e farsi riconoscere consulente primario, italiano, imprescindibile. Ma non risulta che la cosa abbia avuto particolare successo. Non a caso, Coltorti individua le cause del declino di Mediobanca nel deterioramento della sua funzione istituzionale: «Nata come parte importante dell’assetto istituzionale nel settore bancario, ha apportato non solo un’attività complementare a quella delle bin, ma soprattutto una capacità di innovazione ineguagliata. Con la sua competenza e la sua fantasia ha tentato di mantenere in vita la gamba “privata” della grande industria… non le è riuscito di fare sistema con lo Stato contribuendo direttamente quale strumento della politica industriale. Il punto non è il capitalismo “di relazione”… Il punto critico per la Mediobanca nell’ultima fase dell’era Cuccia è stata la perdita della funzione istituzionale».
Se davvero questo della funzione istituzionale fosse lo scopo del libro verde, ebbene sarebbe stato sbagliato grossolanamente, perché in contrasto con l’intento di Ciampi di aprire il mercato senza guardare in faccia a nessuno, tantomeno all’ex incumbent.
È vero pure, tuttavia, che negli anni Novanta non ci fu operazione di collocamento azionario di società a p.s. o di Mergers&Acquisitions senza che Mediobanca fosse invitata a partecipare, come chiunque altro, senza più privilegi.
Qui torniamo al punto di partenza: se già dalla nascita nel 1946 ad alcuni poteva sembrare anomalo che Mediobanca svolgesse una missione pubblicistica con logiche privatistiche e senza controlli politici, poteva mai cinquant’anni dopo, con un azionariato ormai tutto privato e in un mercato aperto, ricevere una nuova missione istituzionale captive?
La risposta mia è no, non sarebbe stato possibile. Se questa cosa a Mediobanca non l’avessero capita, questo spiegherebbe il declino del gruppo. Se invece l’hanno capita, non resta che solidarizzare con l’attuale vertice giovane alle prese con un cambio di ruolo e di pelle epocale. Ci riuscirà Mediobanca? Similmente, ci riuscirà il paese?






Bibliografia
S. Bragantini - R. Gallo - V. Gamberale (2004), I tempi del credito industriale, in «Il Sole 24 Ore», 3 giugno, p. 8.
S. Cassese (2016), Gli studenti e la protesta come un rito, in «Corriere della Sera», 8 ottobre, p. 1.
N. Colajanni (2000), Un uomo, una banca, Sperling & Kupfer, Milano.
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NOTE
1 Ci si riferisce al Competitiveness Index pubblicato dall’ International Institute for Management Development di Losanna e a quello del World Economic Forum di Ginevra.^
2 Giovannetti, p. 2.^
3 L’Imi era stato creato nel 1931, quindici anni prima di Mediobanca. Non fu né il solo né il primo istituto di credito mobiliare, perché prima o dopo si aggiunsero l’Icipu e i tre istituti regionali Isveimer, Irfis, Cis.^
4 Giovannetti, pp. 3 e 4.^
5 Ivi, p. 7.^
6 Giovannetti, p. 30.^
7 Ivi, p. 13.^
8 Giovannetti, p. 21.^
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