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Il costituzionalismo e i limiti del positivismo giuridico
di Fabrizio Mastromartino
1. A partire dagli anni ’80, soprattutto grazie all’opera di Ronald Dworkin, le discipline filosofico-giuridiche hanno iniziato a considerare con maggiore attenzione di quanto non avessero fatto in passato le trasformazioni del diritto derivanti dal carattere costituzionale degli ordinamenti. È infatti soltanto in anni recenti che la riflessione teorico-giuridica si avvicina a quella tradizione di pensiero che è il costituzionalismo, inteso come dottrina del diritto quale tecnica di limitazione del potere politico (cfr. S. Pozzolo, Neocostituzionalismo e positivismo giuridico, Torino, Giappichelli, 2001, p. 27. Per una completa panoramica sul costituzionalismo, si veda Le basi filosofiche del costituzionalismo, a cura di A. Barbera, Roma-Bari, Laterza, 2000). Questo tardivo riconoscimento della centralità della costituzione, per la comprensione della struttura e degli elementi del diritto, è motivato innanzitutto dalle questioni poste dal ruolo decisivo degli organi deputati alla giurisdizione costituzionale, le cui decisioni vincolano non soltanto la giurisdizione ordinaria ma anche lo stesso potere legislativo; in secondo luogo dai problemi relativi alla superiorità gerarchica delle norme costituzionali rispetto alla legislazione ordinaria ed ai loro specifici contenuti che, rimandando espressamente a valori etico-morali, risultano difficilmente interpretabili secondo una lettura unicamente giuridica.
Questi elementi strutturali e funzionali degli ordinamenti costituzionali sono stati ritenuti a tal punto innovativi da spingere a mettere in discussione il modello che ha dominato gli ultimi due secoli della riflessione gius-filosofica: il positivismo giuridico. Tale prospettiva si è imposta sulle dottrine del diritto naturale a partire dalla seconda metà del XIX secolo, in conseguenza della convergenza della jurisprudence inglese, avviata dal filosofo J. Bentham e compiutamente sistematizzata da J. Austin, con la teoria generale del diritto elaborata in ambito tedesco in continuità con gli studi di Von Savigny. Nel secolo scorso ha trovato la sua maggiore espressione nelle opere di H. Kelsen e di H. Hart, i cui studi hanno dato impulso allo sviluppo dell’indirizzo analitico della teoria del diritto che tanta fortuna ha avuto, e continua ad avere, in Italia grazie soprattutto all’opera di Norberto Bobbio.
Il positivismo è considerato una dottrina formale del diritto che si contrappone alle dottrine filosoficogiuridiche sostanziali espresse dalle teorie gius-naturalistiche. Secondo il positivismo, oggetto di studio della scienza giuridica è il diritto positivo, ovvero l’insieme delle norme poste da un soggetto abilitato in conformità delle regole sulla produzione giuridica. La morale non è qualificabile come diritto, indipendentemente dal valore che possiamo associare alle norme che ad essa appartengono. Le prescrizioni morali diventano norme giuridiche soltanto se, attraverso una specifica procedura formale, vengono inserite all’interno di un complesso di norme poste da un’autorità legittimata a creare diritto, secondo le regole che definiscono le forme della sua produzione.
Il cosiddetto diritto naturale, oggetto di studio ed elaborazione delle dottrine gius-naturalistiche, non è affatto diritto per il positivismo, che anzi lo ritiene soltanto un’espressione degli specifici valori del particolare sistema morale cui si riferisce. Diritto e morale sono piuttosto sistemi deontici distinti: il primo è un fatto, e più propriamente quel fatto giuridico che è creato da un’autorità legittimata a produrlo; la seconda è quel particolare impianto di valori associati a certi comportamenti da un individuo o da un gruppo di individui appartenenti ad una comunità. Pertanto un certo insieme di norme è diritto in virtù esclusivamente della sua forma, in quanto linguaggio artificiale prodotto in conformità di certe regole ed indipendentemente dai suoi specifici contenuti, dai quali, al contrario, un sistema morale, perché lo si possa valutare come tale, non può certo prescindere.
Sono soprattutto questi due elementi, l’individuazione del diritto operata mediante un criterio esclusivamente formale e la tesi della separazione tra diritto e morale, ad essere oggetto di critica da parte delle riflessioni filosofico-giuridiche che più hanno posto al centro del loro studio la struttura ed il funzionamento degli ordinamenti costituzionali. Questi nuovi approcci al diritto condividono l’idea che la dottrina positivista non abbia dato adeguato rilievo alle costituzioni: che della struttura costituzionale dell’ordinamento sia stata proposta una lettura insufficiente, inidonea a rendere conto delle trasformazioni del diritto derivanti dalla costituzionalizzazione dei sistemi normativi [a tal proposito si considerino le osservazioni di Luigi Ferrajoli il quale, relativamente alla versione del positivismo di indirizzo analitico di matrice bobbiana, parla di «incomprensione dell’odierno costituzionalismo rigido e delle innovazioni da esso introdotte nella struttura normativa del diritto» cfr. L. Ferrajoli, La cultura giuridica dell’Italia del Novecento, Roma-Bari, Laterza, 1999, p. 103] e ancor più incapace di proporre soluzioni ai nuovi problemi giuridici che emergono dal loro funzionamento.
Il contributo di Giorgio Bongiovanni dal titolo Costituzionalismo e teoria del diritto (Roma-Bari, Laterza, 2005) ha il merito di cercare di inquadrare in maniera precisa e dettagliata queste prospettive teorico-giuridiche, proponendosi come uno studio comprensivo e sistematico delle recenti riflessioni teoriche sulle novità introdotte dalla costituzionalizzazione dei sistemi normativi relativamente alla loro struttura e alla loro dinamica: quegli elementi, in altri termini, che fanno di un ordinamento una democrazia costituzionale e che ne definiscono le specifiche modalità di funzionamento.
Gli accostamenti analizzati nel testo costituiscono modelli teorici alternativi, e profondamente innovativi, rispetto alla prospettiva gius-filosofica dominante, la cui valutazione, a seconda delle analisi esaminate, assume i tratti di una limitata revisione critica o i lineamenti di un radicale superamento. Questi suggeriscono di certificare compromessa la finalità euristica del modello positivistico e, sulla scorta di un’analisi degli elementi introdotti dal dato costituzionale, ne propongono un aggiornamento sostanziale attraverso la revisione di un insieme limitato di tesi ad esso ascritte (è il caso del positivismo “inclusivo” di Coleman e Waluchow e del “giuspositivismo critico” di Ferrajoli), o l’abbandono complessivo per mezzo dell’elaborazione di modelli teorici a questo nettamente contrapposti (quali i modelli neocostituzionalistici di Alexy, Nino e Dworkin e la teoria discorsiva del diritto elaborata da Habermas).
Il volume di Bongiovanni ha una struttura semplice e ben organizzata. È diviso in tre capitoli fra loro in certa misura autonomi, reciprocamente indipendenti ma chiaramente interconnessi secondo la specifica articolazione proposta dall’autore. È dato ampio spazio in apertura del testo all’approfondimento delle analisi svolte dalle dottrine costituzionalistiche relative agli elementi strutturali introdotti nel diritto dall’assetto costituzionale degli ordinamenti. Insieme è sviluppata una valutazione dei limiti teorici e metodologici delle tesi associate al positivismo giuridico rispetto alla natura e alla funzione di questi elementi (capitolo 1). Vengono poi esaminate nel dettaglio le critiche avanzate al positivismo giuridico e le corrispondenti proposte di soluzione dei problemi teorici che emergono dal funzionamento dei sistemi costituzionali relativamente ai principali temi oggetto di riflessione della teoria del diritto: da un lato la dimensione ontologica del diritto, ovvero la sua individuazione e il suo concetto (capitolo 2), dall’altro le forme e i modi della sua applicazione e della sua interpretazione (capitolo 3).
L’analisi è rigorosamente ricostruttiva e raramente critica, in linea con l’intenzione dell’autore di offrire al lettore uno strumento di studio utile per avvicinarsi ai temi trattati e per meglio orientarsi nella complessità delle correnti contemporanee del dibattito filosofico-giuridico che si confrontano con il modello gius-positivistico dominante. Del resto la cifra caratterizzante del volume è proprio la sua semplicità strutturale che viene in soccorso alla densità e allo spessore dei contenuti illustrati, alla cui analisi è affiancata un accurato apparato di note e di riferimenti bibliografici.


2. È un risultato delle analisi costituzionalistiche, soprattutto di matrice anglofona, il riconoscimento della pluralità funzionale associabile alle costituzioni del secondo dopoguerra. Questi studi mettono in rilievo che i testi costituzionali definiscono in primo luogo un insieme di strumenti predisposti alla limitazione del potere politico, quali la superiorità gerarchica delle norme costituzionali rispetto alla legislazione ordinaria, il controllo di costituzionalità delle leggi, la procedura aggravata per la revisione del testo costituzionale e il principio della separazione dei poteri. In secondo luogo, incorporano un’ampia lista di diritti e principi politico-sociali, funzionali all’indirizzo dell’azione di governo. Inoltre riconoscono il principio democratico assegnando la sovranità al popolo ed al contempo possono essere considerati una fonte di legittimazione del potere politico, sottoposto alla legge e tenuto a rispettare ed a promuovere un insieme di diritti fondamentali inscritti nel testo costituzionale.
L’individuazione di queste funzioni, osserva Bongiovanni, consente da un lato di sottolineare il superamento della visione liberale classica, che sopravvaluta il ruolo di limite del potere politico esercitato dalla costituzione, in modo da riconoscere che questa, essendo fonte di autorizzazione, «apre, e non solo limita, degli spazi di azione politica» (pp. 8-9) [in altri termini, vi sono norme costituzionali che sono regole costitutive e non semplicemente regolanti; la nozione di “regola costitutiva” è introdotta da J. Searle nel suo classico lavoro Atti linguistici (Torino, Bollati Boringhieri, 1992); «le regole costitutive non si limitano a regolare; esse creano o definiscono nuove forme di comportamento» (ivi, pp. 62-64)]. Dall’altro, permette di interpretare le costituzioni del Novecento quali «sintesi dei diversi modelli di costituzione» (p. 14), poiché sintetizzano, rispetto alla questione della fonte di legittimazione del potere politico, le due prospettive più autorevoli del costituzionalismo, elaborate da C. Schmidt e da H. Kelsen. Per il primo, è imprescindibile il riferimento al potere costituente esercitato dal popolo sovrano, che esprime la sua volontà unitaria attraverso l’adesione ad una carta costituzionale che riflette i valori da questo condivisi [sul punto si veda l’agile saggio di M. Fioravanti, Costituzione, Bologna, Il Mulino, 1999; «la costituzione è democratica perché è stata voluta dal popolo sovrano, che in essa si è rappresentato come unità politica capace di decidere sul proprio futuro» (ivi, p. 156)]. Per il secondo la costituzione è necessariamente pluralistica: di conseguenza, è tanto legittima quanto più esprime istanze divergenti, espressione degli interessi contrastanti delle parti sociali che convivono nella medesima comunità politica [«la costituzione è democratica proprio perché rifiuta ogni unità precostituita e perché consente allo stesso pluralismo di dispiegarsi completamente» (ibidem)]. La visione organicistica di Schmidt, che privilegia la dimensione sostanziale della costituzione ponendo in rilievo i contenuti da questa espressi, riferisce la legittimità dell’autorità politica al potere costituente che si identifica nel popolo sovrano; la visione pluralistica di Kelsen, al contrario, privilegia la dimensione formale della costituzione, assegnando importanza alle procedure in essa espresse, qualificate come forme di garanzia della più ampia gamma possibile di contenuti. Le costituzioni odierne, sostiene Bongiovanni, contemporaneamente espressione del potere costituente e fonte di legittimazione del potere democratico (p. 9), realizzano entrambi i modelli e configurano una soluzione soddisfacente al problema dell’autorità politica che, in linea con la concezione weberiana del potere, è tale soltanto se rappresenta un potere legittimo.
Accanto alle questioni che riguardano il funzionamento dei sistemi costituzionali, l’autore ricostruisce la riflessione critica in merito all’elemento strutturale che meglio indica il livello di complessità degli ordinamenti costituzionalizzati. Si tratta del riconoscimento della presenza, accanto alle regole, di un ampio insieme di principi costituzionali che, oltre a limitare la discrezionalità del Legislatore, definiscono l’indirizzo dell’azione politica, in quanto «valori direttivi dell’ordinamento giuridico» (p. 29). Questi si distinguono dalle regole in ragione di una maggiore apertura della loro formulazione, che determina una più ampia indeterminatezza relativamente alle norme da essi espresse, e, secondariamente, in virtù della differenza negli effetti della loro dimensione normativa. Se infatti le regole implicano conseguenze giuridiche definite, diversamente «i principi sono norme che prescrivono che qualcosa deve essere realizzato nella misura più ampia possibile compatibilmente con le possibilità giuridiche (cioè gli altri principi e regole presenti nell’ordinamento) e di fatto» (p. 30). In altri termini, l’interpretazione dei principi, in quanto disposizioni normative, finalizzata a stabilire la norma corrispondente, quale loro significato (per la distinzione tra “disposizioni normative” e “norme”, si veda R. Guastini, Il diritto come linguaggio, Torino, Giappichelli, 2001, p. 27 e seguenti), così come la loro applicazione in sede giudiziale, incontrano un grado di incertezza maggiore rispetto alle medesime procedure operate in riferimento alle regole. Un’indeterminatezza semantica che si riflette nella pratica del diritto e che contribuisce a motivare un ripensamento complessivo delle tesi del positivismo giuridico la cui dottrina ignora la distinzione tra regole e principi [come segnala T. Mazzarese in realtà la distinzione tra regole e principi è anche di matrice positivista; cfr. Diritti fondamentali e neocostituzionalismo: un inventario di problemi, in Neocostituzionalismo e tutela (sovra) nazionale dei diritti fondamentali, a cura di T. Mazzarese, Torino, Giappichelli, 2002, p. 38, in nota] o quantomeno esclude che questi siano qualitativamente differenti rispetto alle prime, tanto da rappresentare una tipologia normativa distinta e funzionalmente autonoma rispetto ad esse (pp. 37-40).


3. L’inclusione di principi normativi nei testi costituzionali comporta, secondo le prospettive teoriche esaminate da Bongiovanni, «una apertura del diritto a criteri etico-morali» (p. 55) che impone di ripensare radicalmente la relazione tra i due sistemi deontici. Si tratta di un tema pregiudiziale la cui impostazione, in certa misura, definisce preliminarmente il contenuto degli accostamenti alle altre questioni approfondite nel testo, relative ai criteri di individuazione del diritto e ai modi e alle forme della sua interpretazione ed applicazione.
L’autore sottolinea come sia proprio la critica alla tesi della separazione tra diritto e morale (separation thesis) a segnare la distanza dei nuovi approcci al diritto dal positivismo giuridico, la cui dottrina, sul piano teorico e metodologico, ha trovato in questa tesi, sin dai suoi esordi (per una rapida ma precisa ricostruzione storica del positivismo giuridico, si veda M. Barberis, Breve storia della filosofia del diritto, Bologna, Il Mulino, 2004; in particolare, sull’importanza della separation thesis, le pagine 70-84; si veda anche il classico contributo di H. Hart, Il positivismo e la separazione tra diritto e morale, in Contributi all’analisi del diritto, Milano, Giuffrè, 1964), un elemento irrinunciabile (Luigi Ferrajoli nota che la tesi della separazione tra diritto e morale possa qualificarsi «quale fondamento del principio di legalità nel moderno stato di diritto»; cfr. Diritto e ragione, Roma-Bari, Laterza, 1989, p. 203). Per il positivismo, diritto e morale rappresentano sistemi deontici distinti: il primo è costituito da uno specifico insieme di fatti, appunto giuridici, il secondo da una certa classe di valori. Il diritto è quel complesso di norme poste dal Legislatore in conformità delle regole per la sua produzione. Ed «è tale a prescindere dal fatto che sia buono o cattivo, che sia un valore o un disvalore» (cfr. N. Bobbio, Il positivismo giuridico, Torino, Giappichelli, 1961, p. 129). Altro è insomma la giustizia del diritto, la sua conformità ai valori espressi da un certo sistema etico-morale (cfr. L. Ferrajoli, op. cit., «l’affermazione teorica della separazione del diritto dalla morale è una tesi scientifica che esclude come fallace l’idea che la giustizia sia una condizione necessaria o sufficiente della validità delle norme giuridiche», p. 205). Secondo l’ottica positivista, coerentemente alla concezione del diritto quale fatto, alla scienza giuridica è affidato il compito di descrivere il diritto secondo il vincolo dell’avalutatività [cfr. N. Bobbio, op. cit.; «il diritto oggetto della scienza giuridica è quello che effettivamente si manifesta nella realtà storico-sociale: il giuspositivista studia tale diritto reale senza chiedersi se oltre ad esso esista anche un diritto ideale (come quello naturale), senza esaminare se il primo corrisponda o no al secondo, e soprattutto senza far dipendere la validità del diritto reale dalla sua corrispondenza col diritto ideale», pp. 134-135] distinguendo il diritto quale è dal diritto quale dovrebbe essere, in modo da tenere nettamente separate le questioni teoricogiuridiche relative all’ontologia del diritto dai temi che concernono la teoria della giustizia, l’assiologia dei sistemi normativi (in altri termini, la scienza giuridica, secondo questa impostazione, è una dottrina formale del diritto poiché studia «il diritto nella sua struttura normativa, vale a dire nella sua forma, indipendentemente dai valori a cui questa struttura serve e dal contenuto che essa esprime»; cfr. N. Bobbio, Studi sulla teoria generale del diritto, Torino, Giappichelli, 1955).
A questa interpretazione, chiaramente più complessa e differenziata di quanto qui sia stato presentato (per un accostamento sintetico sui diversi indirizzi del positivismo giuridico si veda M. Barberis, Filosofia del diritto. Un’introduzione teorica, Giappichelli, Torino, 2003, pp. 13-18) si contrappone l’idea che tra diritto e morale vi sia una stretta connessione. Essa è elaborata, dalle diverse analisi critiche esaminate nel testo, in rapporto a due questioni teoriche distinte: il problema dell’obbligatorietà del sistema giuridico (cfr. M. Barberis, op. cit., 2003; «il problema dell’obbligatorietà del sistema giuridico consiste nell’indicare la ragione, il fondamento ultimo, in base al quale le norme giuridiche dovrebbero essere obbedite o applicate», p. 181) e il problema della validità delle norme.
Rispetto al primo tema, gli accostamenti presentati convergono, al di là delle differenze che connotano le diverse direzioni di ricerca, sulla considerazione secondo la quale il diritto è obbligatorio se alle norme che appartengono all’ordinamento possono associarsi procedure razionali di giustificazione. Il contenuto di queste è composto, secondo le tesi di Habermas e degli autori neocostituzionalisti, anche da ragioni morali, la cui inclusione dimostra il nesso esistente tra il diritto e lo specifico sistema di valori cui esso fa riferimento.
Bongiovanni presenta queste tesi, ponendo in rilievo l’importanza della loro dimensione epistemologica. L’autore segnala, esaminando le differenti analisi, che il neocostituzionalismo insiste sull’insufficienza della soluzione positivista che rimanda l’obbligatorietà del diritto al fatto della sua accettazione sociale, ovvero al dato della sua complessiva osservanza ed applicazione, o alla mera conformità formale delle norme rispetto alle regole che ne stabiliscono le procedure di produzione. R. Alexy afferma che «ogni sistema giuridico e le sue norme avanzano una pretesa di correttezza» (p. 67), richiedendo una forma di giustificazione che, in rapporto ai sistemi costituzionali, include necessariamente delle implicazioni morali. La medesima tesi è sostenuta da C.S. Nino che suggerisce di risolvere il problema del rapporto tra diritto e morale, e di conseguenza il problema dell’obbligatorietà del diritto, considerando che «le norme giuridiche non costituiscono di per se stesse ragioni operative per giustificare azioni e decisioni come quelle dei giudici, a meno che le si concepisca come derivanti da giudizi morali» (p. 84). R. Dworkin, nel quadro della sua teoria del diritto come integrità, rileva come soltanto l’interpretazione dei principi di diritto quali norme fondative dell’ordinamento giuridico e delle regole che lo compongono consenta di fornire una soluzione soddisfacente al problema dell’obbedienza. Il giurista statunitense osserva che i principi costituzionali sono da considerarsi di natura squisitamente morale poiché rimandano ai valori dell’eguaglianza e della libertà individuale («ogni individuo [ha] lo stesso valore degli altri»; «ognuno [deve] essere trattato con eguale considerazione»; p. 93), espressione di interessi condivisi da tutti i consociati. La stessa posizione è espressa, infine, da Habermas (p. 125), il quale, all’interno della sua teoria discorsiva del diritto, si muove sullo stesso percorso di Alexy, rimandando la giustificazione delle norme a procedure argomentative che attestino la loro «accettabilità razionale» (Habermas, cit. a p. 110).
Il tema della validità del diritto è affrontato soprattutto dagli approcci di revisione del positivismo (pp. 125-150). Ma non mancano, nel libro di Bongiovanni, i riferimenti alle ricerche neocostituzionaliste che si discostano in modo più radicale dalla dottrina dominante (pp. 95-102). Il positivismo, sovrapponendo la questione
relativa ai criteri di individuazione del diritto alla questione della validità, associa la seconda alla mera qualificazione di esistenza della norma giuridica a sua volta stabilita sulla base della conformità del suo processo di produzione rispetto alle regole che ne prescrivono le caratteristiche formali. Il diritto si risolve nel diritto positivo la cui attestazione di validità ne qualifica l’esistenza quale sistema di norme appartenenti all’ordinamento giuridico in funzione della loro forma e indipendentemente dai contenuti da esse espressi. Si tratta di un concetto di diritto, e di validità giuridica, che stabilisce che il diritto è un linguaggio artificiale, le cui norme, quali suoi elementi, possono avere qualsiasi contenuto ma devono essere compatibili con le specifiche forme previste dal sistema.
Questa interpretazione è arricchita da L. Ferrajoli (nel quadro della sua proposta di «un nuovo paradigma costituzionalistico» quale «costituzionalismo preso sul serio»; cfr. L. Ferrajoli, op. cit., 1999, pp. 105, 113) il quale separa il mero dato dell’esistenza della norma dalla sua validità, distinguendo della seconda due sensi: un aspetto formale, che definisce come vigore della norma, ed un aspetto sostanziale che intende esprimere una più adeguata formulazione del concetto di validità giuridica. Il primo dipende dalla conformità formale delle norme rispetto alle regole che ne determinano le procedure di produzione, in linea con la prospettiva positivista; il secondo dipende dalla conformità sostanziale dei significati delle disposizioni normative rispetto ai contenuti delle regole e dei principi costituzionali a queste gerarchicamente superiori. Ne risulta una fenomenologia delle norme giuridiche che rende conto compiutamente della complessità strutturale dei sistemi costituzionalizzati, nei quali, in questo modo, le norme «possono essere in vigore o non in vigore (non emanate secondo le procedure previste), cioè esistenti o non esistenti; in vigore ma non valide (non conformi al significato delle norme superiori che includono valori), cioè esistenti ma illegittime; in vigore e valide, cioè esistenti e legittime» (p. 144).
Il contributo di Ferrajoli evidenzia la necessità di recuperare la dimensione sostanziale della validità giuridica il cui significato, con il passaggio dallo stato liberale di diritto ai sistemi normativi costituzionalizzati, sarebbe insufficiente continuare a ridurre al solo aspetto della conformità formale della norma. Sulla stessa linea è la posizione del “positivismo inclusivo” che, seppure in maniera meno articolata, conferma il superamento della tesi positivista classica, ammettendo che «la moralità può essere una condizione della giuridicità delle norme: quest’ultima può, a volte, dipendere dal loro valore sostanziale (morale) e non solo dal loro pedigree o dal fatto di derivare da una fonte sociale» (J. Coleman, cit. in testo p. 125).
Se queste analisi propongono di ridimensionare la separation thesis, la quale può essere riformulata, attraverso una necessaria ma parziale revisione del positivismo classico, in una ben più modesta separability thesis, ovvero, per altro verso, nella definizione di una relazione contingente tra diritto e morale, decisamente più radicale è la proposta di Alexy di leggere il rapporto tra i due sistemi deontici nei termini di una connessione tra questi necessaria. Secondo il giurista tedesco, tale connessione trova conferma nell’inclusione, fra le condizioni per la determinazione della validità giuridica, di un principio di giustizia o di legittimità del diritto che consente di rifiutare come diritto ingiusto, e quindi quali norme da ritenersi non valide e cui è moralmente obbligatorio disobbedire anche in sede di applicazione giudiziale, quelle norme che si discostano in misura estrema dal sistema di valori morali che si presume condividano i loro destinatari (Alexy fornisce la seguente definizione di “validità”: «il diritto è un sistema di norme che 1° avanza una pretesa di giustezza, e 2° consiste nella totalità delle norme di una costituzione socialmente efficace nelle sue grandi linee e che non sono ingiuste in misura estrema, così come nella totalità delle norme statuite in modo conforme alla costituzione, dotate di un minimo di efficacia sociale o di chance di efficacia e di cui fanno parte i principi e gli ulteriori argomenti normativi su cui si basa e/o si deve basare la procedura di applicazione del diritto per assolvere alla pretesa di giustezza»; in Alexy, Concetto e validità del diritto, Torino, Einaudi, 1997, p. 129; il passo è citato anche nel testo di Bongiovanni a pagina 101).


4. Dopo aver passato in rassegna le critiche delle tesi positiviste e le proposte di soluzione avanzate dalle correnti esaminate in relazione al tema della natura del diritto e dei criteri per la sua individuazione, Bongiovanni approfondisce le analisi elaborate dai nuovi approcci rispetto al problema dell’interpretazione del diritto (capitolo 3). L’autore segnala che, per tutti gli accostamenti che si riferiscono ad una prospettiva neocostituzionalistica, l’analisi della dimensione interpretativa e applicativa integra la comprensione del concetto di diritto (p. 151). L’interpretazione del resto mostra il diritto nella sua quotidianità vivente, nella sua incessante dinamica, rivelando come la natura stessa del diritto non possa lasciarsi intendere completamente dall’analisi pur esaustiva dei suoi elementi strutturali che rimandano alle forme e ai contenuti della sua produzione. Tanto più una volta che, in conseguenza della constatazione dell’inclusione di un insieme di principi costituzionali nel sistema normativo, sia affermato un rapporto di connessione (contingente o necessario che sia) tra diritto e morale, come le analisi presentate suggeriscono univocamente.
Secondo Bongiovanni, l’apertura della formulazione dei principi, la loro vaghezza semantica, e soprattutto il loro contenuto valoriale comportano per l’interprete due problemi: una maggiore difficoltà nell’attribuzione di significato alla disposizione normativa ed una variabile discrezionalità dell’attività interpretativa ed applicativa in conseguenza dell’ineliminabile valutatività dei rispettivi processi (pp. 152-160). Accanto al problema dell’indeterminatezza semantica, posto dall’interpretazione nel quadro della crisi del modello corrispondentista della verità [la teoria della verità come corrispondenza è oggi ampiamente superata; essa sostiene che «la verità di un enunciato consiste nel suo accordo (corrispondenza) con la realtà»; cfr. E. Picardi, Linguaggio e analisi filosofica, Bologna, Patron, 1992, p. 35; ha trovato la sua più compiuta elaborazione nel Tractatus logico-philosophicus di L. Wittgenstein] e della parallela affermazione delle tesi scettiche sul significato (in un senso generale, le tesi scettiche affermano che il significato di un termine, o di un enunciato, sia determinato dalle regole che ne definiscono l’uso, e che il criterio della corrispondenza con la realtà, quale fonte per la verifica empirica di un enunciato, debba essere rimpiazzato da quello della coerenza) ben più interessante è il riconoscimento problematico della presenza di scelte di valore all’interno delle procedure interpretative, segnalata dal potenziale conflitto tra i valori espressi dai principi e dalla «difficoltà di fissare relazioni di priorità o forme razionali di bilanciamento» tra questi (p. 154).
L’esigenza espressa dalle prospettive esaminate da Bongiovanni è quella di «individuare criteri di razionalità della decisione giudiziale» (p. 151) che possano restituire, qualificandosi quali criteri procedurali di correttezza dell’argomentazione giuridica, nuove forme di oggettività all’attività interpretativa. È infatti ampiamente superata la vecchia concezione positivista, risalente a J. Austin, della natura cognitiva dell’interpretazione, e della conseguente univocità inequivoca del suo risultato (Austin sostiene che «scopo della genuina intepretazione è la scoperta del diritto così come il legislatore l’ha voluto»; il passo è riportato da R. Guastini, in op. cit., 2001, p. 127). Il fatto stesso della pluralità semantica delle disposizioni normative, insieme all’eterogeneità del contenuto dei principi, spesso tra loro confliggenti, comporta l’inadeguatezza di un’analisi di questo tipo. Oggi lo stesso positivismo, seguendo le analisi di H. Hart (op. cit., 1964, pp. 127-143), propende per la cosiddetta teoria “mista” dell’interpretazione, che sostiene che questa sia, a seconda della difficoltà dei casi esaminati, «talvolta, il risultato di un processo di conoscenza; talaltra il prodotto di una decisione discrezionale» (cfr. R. Guastini, op. cit., 2001, p. 129). L’occorrenza di casi difficili, di fronte ai quali il sillogismo giudiziale produce conclusioni diverse ma tutte formalmente corrette da un punto di vista logico e giuridico, suggerisce di leggere l’interpretazione come forma di «giustificazione esterna» (R. Alexy, cit. nel testo p. 162) delle premesse impiegate nel ragionamento giudiziale, finalizzata a motivare la scelta interpretativa. «La teoria dell’interpretazione è perciò un’analisi delle “ragioni” che precedono l’applicazione della norma» (p. 163): un’attività prevalentemente argomentativa che, avanzando una pretesa di correttezza razionale, richiede la «elaborazione di nuovi fondamenti della razionalità giudiziale» (p. 160).
I modelli esaminati da Bongiovanni intendono fornire, secondo una direzione fondamentalmente procedurale (p. 168), un catalogo di condizioni normative che garantiscano la correttezza dell’interpretazione. Questo insieme di criteri di razionalità dell’argomentazione interpretativa varia a seconda dei modelli elaborati. Tuttavia, l’elemento ad essi comune è la loro finalità procedurale volta a stabilire uno specifico metodo per l’interprete piuttosto che a indicare soluzioni sostanziali dei casi concreti. Nelle ricerche di Habermas e di Alexy, la pretesa di correttezza avanzata dalle premesse che compongono il ragionamento giudiziale trasferisce la dimensione pragmatica dell’interpretazione sul piano dell’argomentazione e del discorso intersoggettivo, che nel suo aspetto pratico presuppone, per la sua interna accettabilità razionale, alcune condizioni di correttezza del processo argomentativo: «un insieme di “pretese normative” […] che riguardano l’eguaglianza dei soggetti che argomentano, la libertà dalla costrizione e l’universalità dei partecipanti» (p. 187). Si tratta di un argomento pragmatico-trascendentale che, fissando le regole procedurali della correttezza dell’argomentazione, stabilisce i criteri per la determinazione della razionalità del processo che porta alla decisione interpretativa. Simile alla soluzione dei due filosofi tedeschi è la proposta di una «concezione normativa dell’oggettività» (p. 180) del processo argomentativo avanzata da Coleman e Leiter. Secondo questi autori, la correttezza dell’argomentazione, riformulata nei termini di una modest objectivity, dipende dal soddisfacimento di un insieme di requisiti che dovrebbero guidare l’interprete nel processo di interpretazione ed applicazione del diritto, coerentemente all’idea che «ciò che sembra corretto, in “condizioni epistemiche ideali”, determina ciò che è corretto» (cfr. Coleman, Leiter, Determinacy, Objectivity, and Authority, Oxford, Clarendon, 1995, citato nel testo, p. 179).
Infine Bongiovanni si sofferma sull’analisi di Dworkin, secondo il quale anche di fronte a casi difficili è sempre possibile giungere ad una decisione interpretativa corretta, ad una conclusione del processo argomentativo in qualche modo definitiva (pp. 196-205). Lo specifico insieme di condizioni che consente di giungere alla right answer è costituito da due canoni principali: l’armonia e la giustificazione (p. 199). Secondo il giurista statunitense, la decisione interpretativa deve da un lato armonizzarsi con i materiali giuridici rilevanti, e dall’altro soddisfare la pretesa di giustificabilità definita in riferimento ai principi di equità e giustizia e alle regole procedurali alla base dei documenti e dei precedenti che l’interprete prende in considerazione. Come nota Bongiovanni, si tratta ancora una volta di un modello procedurale che, piuttosto che fornire strumenti per la soluzione dei casi concreti, «fa, soprattutto, riferimento al metodo che il giudice deve seguire» (p. 203) per trovare la risposta corretta.
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