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Per Marx
di Biagio de Giovanni
1. Marx si occupò esplicitamente di teoria dello Stato in anni assai giovani, fra il 1841, anno di letture preparatorie e piccoli assaggi, e il 1844: testi fondamentali, la Critica del Diritto statuale hegeliano e la Questione ebraica. Dopo queste date, che se ne sappia finora, Marx mai più tornò sul tema in forma sistematica. Nei testi indicati, Marx si misurò con il livello più alto raggiunto dalla teoria dello Stato, e il nucleo rovente della sua critica è assai chiaro, si può dire unificato intorno a un unico punto. In una breve ricostruzione, che è quasi un nudo elenco di temi, mi limito a ricordare un luogo in cui è racchiusa emblematicamente la sua obbiezione decisiva, che è questa: «lo Stato politico è un’esistenza separata dalla società civile» (Marx, Critica del diritto statuale hegeliano, traduzione e commentario di R. Finelli e F.S. Trincia, Università di Roma, “La Sapienza, Edizioni dell’Ateneo”, 1983, p. 222), qui si annida la sua realtà e la sua astrazione, o a dir meglio la sua reale capacità di astrazione che è nella forma del suo potere separato, nella sua incapacità a fornire effettiva esistenza politica alla società civile, che resta, nel suo carattere separato, entità abbandonata ai propri istinti animali. Non penetrata dall’universalità dell’esistenza politica, essa resta inchiodata al proprio materialismo, a quel materialismo che è peraltro la condizione necessaria di quella esistenza politica puramente formale, secondo il criterio critico fondamentale elaborato da Marx nella Questione ebraica. È impressionante l’analogia, pur nelle differenze, fra la visione marxiana e quella hegeliana della “società civile”, rappresentata come i primi grandi teorici dello Stato moderno avevano descritto e rappresentato lo “stato di natura”, lotta di tutti contro tutti, scontro per la sopravvivenza, particolarità egoistica dei fini. Ma in Hegel, come si sa, il principio dello Stato, come il re Mida, trasforma quella particolarità in universalità, scorge in quella particolarità complessi sistemi vitali, la immette nei fini universali che lo Stato contiene dentro di sé, ne cura la ferita lacerante che essa porta nel proprio nucleo ultimo. In Marx, invece, la separazione giunge fino all’estremo, si tende in estremi opposti, è la premessa per il rovesciamento di quel formalismo che lo Stato rappresentava al massimo grado. In fondo, per Marx, la teoria hegeliana dello Stato è la risposta “moderna” e formalistica all’irrompere di una vitalità potenzialmente democratica, isola la forma politica dal contenuto purificandone l’essenza, ma non può nascondere l’esito di questa “teologia politica”, che è nell’organizzazione dell’astratto momento politico in potere arbitrario, sovrapposto, in un formalismo che poggia solo su se stesso, in una sovranità, infine, senza fondamento. Siccome però Marx comprende anche quanto di moderno e di decisivo porti nel mondo storico quell’isolamento della forma politica rispetto al mescolamento fra politica e dimensioni di ceto proprio delle società feudali, rispetto ai vincoli corporativi e di gruppo che quel mescolamento portava con sé, il problema in realtà si complica e ha vari aspetti che devono essere studiati e illuminati. Infatti, questa attenzione di Marx alla faustiana dinamicità del mondo moderno borghese gli permise di comprendere la straordinaria importanza della sua capacità di mettere a nudo la pura individualità e la pura sua potenza d’improvviso liberata dalle cappe corporative, e che trova realizzazione nel recinto della “società civile”, in quel materialismo delle condizioni terrestri di vita che contengono aspre contraddizioni e, insieme, immense manifestazioni vitali. È proprio la scoperta della società civile moderna a liberare la potenza prima compressa, e a creare la condizioni di uno sviluppo che sembra a prima vista senza limiti. E in fondo, la liberazione della forma puramente politica non era che il terreno su cui necessariamente si andava costituendo la “libertà” della società civile stessa – ne era insieme causa e risultato −, una libertà dunque gravida di tragici egoismi e, insieme, di tutte le realizzazioni che la potenza “liberata” era in grado di portare a esistenza. Credo che Marx sia affascinato da questo faustismo – come ha definitivamente mostrato M. Berman, Marx, il modernismo e la modernizzazione, in M. Berman, L’esperienza della modernità, Bologna, il Mulino, 1985) − non meno di quanto ne sia respinto, e certamente bisognerebbe scavare in questa situazione che somiglia a un paradosso storico.

2. Qui mi limito ad accennare al seguente possibile sviluppo argomentativo: l’individuo ha in sé medesimo una duplicità, è l’individuo storicamente determinato, soggetto della egoistica società civile, e quello ontologicamente innervato nelle sua facoltà umane, nella sua capacità di realizzarsi con la pienezza e ricchezza del mondo umano. E si potrebbe dire che anche qui si annida lo spinozismo di Marx, di quello Spinoza che fa muovere la finitezza fra l’ingorgo delle passioni e la volontà di eterno. Ma come si può manifestare per Marx la pienezza del mondo umano se l’unico limite dell’individuo moderno sembra quello dato dai limiti della sua potenza (ancora Spinoza)? In questo passaggio, c’è forse una assenza e una mancanza. L’anarchia della società civile moderna manifesta o no una condizione antropologica? Sembra facile, in Marx, negare questa possibilità, dal momento che la “società civile” ha carattere specificamente storico, storicizza per definizione il carattere del proprio recinto, anche se appare almeno sintomatico che questa storicizzazione fa emergere situazioni che sembrano attenere alla “natura” dell’uomo, alla sua egoistica volontà di potenza. È possibile dire che la storicità della “società civile” fa irrompere alla superficie proprio questa “natura”? E che dunque la difficoltà e complessità della risposta stia proprio nel governo di una situazione storica che ha il potere di far riemergere qualcosa che attiene alla natura dell’uomo? Certo, la rappresentazione marxiana raccoglie, come accennavo, la descrizione dello “stato di natura” dei teorici dello Stato moderno, da Hobbes a Locke allo stesso Spinoza, e lì si disegnava dentro una dimensione antropologica alla quale doveva corrispondere la costruzione politica che non per caso, nella costruzione hobbesiana, mette al centro l’assolutezza del comando sulla vita dei sudditi e in Locke porta a luce l’appropriazione proprietaria quasi come prolungamento della corporeità. In Marx sembra che la contraddizione fra egoismo e comunità umana pienamente realizzata possa essere vinta dal superamento della separazione fra condizioni oggettive della produttività del mondo (politica separata, mezzi di produzione separati) e mondo della vita nel senso più largo, quel mondo che può (deve) liberare la proiezione ontologica dell’individuo. Ma il tema è resistente, e non sono assenti le tentazioni offerte dalla scorciatoia della coercizione e del disciplinamento, come proverò ad argomentare più avanti.

3. Lascio del tutto sospesa, con i punti sospensivi, una risposta anche minimamente soddisfacente al difficile problema a mio avviso ampiamente sottovalutato nella letteratura marxista, e torno al tema dello Stato. Con gli scritti del 1844, Marx considera esaurito il suo compito critico sullo Stato. Dello Stato, come concreta entità storica, in un momento particolare della storia francese, Marx scriverà ne Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, fra 1851 e 1852, dove la macchina statale compare in tutta la sua assoluta arbitrarietà. Con il colpo di stato del Bonaparte, «ogni interesse comune fu subito staccato dalla società, e contrapposto a essa come interesse generale, più alto, strappato all’iniziativa individuale dei membri della società e trasformato in oggetto di attività di governo» (Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, a cura di G. Giorgetti, Roma, Editori Riuniti, 1964, p. 206). Il motivo è quello indicato sistematicamente negli scritti prima indicati, ma qui la cosa si colora di carne e sangue, riguarda l’effettiva organizzazione di un potere giudicato arbitrario, illegittimo, che finalmente si manifesta in tutta la sua separatezza, gettando alle ortiche ogni argomentazione relativa alla sua divinità e gettando disprezzo su quel Parlamento che per Marx è già diventato luogo di camarille e di intrighi (ivi, p. 146). «È soltanto sotto il secondo Bonaparte che lo Stato sembra esser diventato completamente indipendente. La macchina dello Stato si è talmente rafforzata di fronte alla società borghese, che le basta avere alla sua testa il capo della Società del 10 dicembre, un avventuriero qualsiasi venuto dal di fuori, levato sugli scudi da una soldataglia ubriaca che egli ha comprato con acquavite e salsicce[…]» (ivi, p. 207). La teologia politica di Hegel si misura così con la soldataglia ubriaca, e ogni parvenza di legittimità crolla. La separazione dello Stato ha dentro di sé il germe di questa corruzione che porta all’estremo «il contrasto fra il potere dello Stato e la società» (ivi, p. 219). Alla teologia politica corrisponde il più bieco materialismo, non essendo l’atto politico vincolato da niente di effettivo. Marx non nega la necessità di una centralizzazione dello Stato di cui la società moderna ha bisogno, ma essa «può esser realizzata soltanto sulle rovine della macchina statale burocratica e militare che è stata forgiata dalla lotta contro il feudalesimo» (ivi, p. 220). La macchina dello Stato va insomma spezzata. Marx tornerà a parlare di questo negli scritti sulla guerra civile in Francia, riflettendo sull’esperienza fallimentare della Comune, e poi nella Critica del programma di Gotha, ma sempre sotto l’influenza di una situazione concreta. I conti con la teoria dello Stato erano già stati fatti e non valeva più la pena tornare su di essi attraverso una rivisitazione critica delle sue categorie generali.

4. Perché Marx non si applica più sul tema? Forse non lo giudica più centrale, e pensa che bisogna scavare altrove, nei rapporti di produzione. Come ha scritto Giuseppe Capograssi, «il corso stesso del suo pensiero porta Marx a questo nuovo studio e gli fa abbandonare sia la indagine meramente filosofica e sia le ricerche sulla società politica di cui ha scoperto definitivamente il carattere secondario e derivato. Di qui l’interruzione del commento a Hegel perché l’interesse vero del pensatore è altrove» (G. Gapograssi, Le glosse di Marx a Hegel, in Idem, Opere, IV, Milano, Giuffrè, 1959, p. 67). Rimane nel suo lavoro una acquisizione definitiva che si ritrova confrontando le modalità della separazione che il capitale opera tra le condizioni di lavoro e il lavoro, e quella che lo Stato politico opera fra se stesso e la società reale (per una analisi più puntuale di questo aspetto del problema rinvio a B. de Giovanni, Marx e la democrazia, in «Il Ponte», agosto-settembre 2006, nn. 8-9, in particolare pp. 56-57). Ma c’è forse una ragione di quel non-ritorno sul tema Stato (la indico come mera ipotesi, tutta da approfondire) che può essere espressa così: il capitalismo spinge verso la mondializzazione, ed è superfluo ricordare i celebri passaggi del Manifesto del partito comunista in questa direzione, e questo elemento dirompente semplifica al massimo la funzione dello Stato che, per difendersi dal possibile tramonto, si trasforma in apparato centralizzato, in Stato potenza, e le complicazioni hegeliane si mostrano come mere giustificazioni “teologiche”. Insomma, il cosmopolitismo del capitale ha bisogno dello Stato-apparato, non gli serve altro. La filosofia dello Stato, proprio nella sua forma più alta, si mostra come mera illusione speculativa su cui non val più la pena concentrarsi. Il problema, si potrebbe dire, passa alla pratica rivoluzionaria. Che cosa si deve fare, collocandosi dalla parte di chi si oppone? Non c’è che da spezzare l’apparato, stringerlo d’assedio, ogni parola diventa superflua. O forse in Marx resta una incertezza in questo irrompere della pratica rivoluzionaria come risposta al dominio dello Statoapparato. Spezzarlo, appunto, o occuparlo volgendolo provvisoriamente ad altro fine? in vista della dissoluzione dello Stato politico in una società civile che si libera della sua separatezza?, una ipotesi, quest’ultima, che si riverbera nella storia del Novecento. Le due risposte coesistono, legate magari a congiunture differenti, e ad esempio sia nel Manifesto (1848) sia nella Critica del programma di Gotha (1875) compare questa seconda via.

5. Proviamo ora a tornare sulle movenze iniziali. Con quale filosofia dello Stato si misurò il giovane Marx? Con il punto più alto ed elaborato da essa raggiunto, con Hegel: lo Stato come realizzazione della filosofia. Marx ne comprende il senso, ed è così che si distacca da Feuerbach. In una lettera a Ruge del 1843 è scritto: «Gli aforismi di Feuerbach solo in un punto non mi sono chiari, quando egli si ferma molto sulla natura, poco sulla politica. Ma quest’ultimo è l’unico legame dove l’odierna filosofia può toccare la verità» (in G. Capograssi, op. cit., p. 54). E qui bisogna fare una breve ma importante parentesi propriamente filosofica relativa agli studi di Marx in questi anni e alle costanti annotazioni di essi. La Metafisica di Aristotele e soprattutto Leibniz e Spinoza. Dove il significato di questo passaggio?. Esso è precisato con molta intelligenza critica nel Commentario di Francesco Saverio Trincia alla marxiana critica del diritto statuale hegeliano. L’attenzione di Marx è per il “vinculum sostanziale” di Lebniz (anche G. Capograssi sottolinea l’importanza di questo passaggio, in op. cit., p. 53) e per il concetto spinoziano di sostanza. Con quali effetti sul suo impianto critico? La risposta di Trincia è questa: «Per Marx il vinculum sostanziale connette alla essenzialità (sostanzialità) statale dell’individuo universale gli affari e le attività dello Stato. La qualità sostanziale dell’individuo agisce dunque naturalmente nelle attività dello Stato. Individuo e Stato costituiscono dunque una unità sostanziale, solo astraendo dalla quale si tengono, su posizioni di opposizione reciproca, l’individuo fisico particolare e gli astratti affari dello Stato» (Commentario, in ed. cit., p. 318). Quel “vincolo sostanziale” diventa il punto di vista critico di Marx. Contro il formalismo dello Stato solo politico, la sostanziale unità di individuo e Stato diventa una sorta di vincolo ontologico che solo la violenza e l’arbitrio possono provvisoriamente abolire. Contro quel vincolo, si staglia la scissione tra vita ontologicamente sociale dell’individuo e Stato politico. La sostanzialità si batte contro la separatezza della dimensione politica. Leibniz e Spinoza sono gli autori decisivi in questo passaggio.

6. E giungiamo così a un punto di notevole significato ermeneutico. Domandiamoci: come si disegna questa sostanzialità? Rispondiamo, con atteggiamento critico: come identica a sé, compatta identità del sé, e sacrificio della differenza. Che cosa implica questo sacrificio? Produce l’eliminazione della mediazione, destinata a tenere insieme e far svolgere la realtà della differenza: anche su questo il commento di Trincia è da condividere. Gli effetti sono dirompenti. Proviamo ad elencarli semplicemente: visione organica della sostanza-soggetto; abolizione dello Stato politico come vera “mossa” della vera universalità dello Stato, quella che si manifesta nel sinolo ontologico con l’individuo; rigetto dell’articolazione interna alla sovranità che in Hegel intende essere mediazione per eccellenza. Si può dire: c’è, per Marx, una verità sostanziale contro il formalismo dello Stato, la verità data da quel sinolo che ho richiamato, in cui si concentra il rapporto tra democrazia e verità. La democrazia (sinolo ontologico fra individuo e Stato) si rivela come la verità della politica, una verità talmente cogente da premere alle porte dello Stato astrattamente politico. Qui, va detto subito, parte un filone decisivo nella storia della democrazia, il suo porsi come immanente alla sostanza umana, il suo esser portata in campo da essa. Si disegna un campo critico che avrà svolgimenti epocali e che una vulgata non precisa ma che politicamente ha molto funzionato, chiama distanza fra democrazia formale e democrazia sostanziale.

7. Insomma, Marx individua nell’abolizione della “differenza” la sua arma critica. Una compatta sostanzialità si scaglia contro gli apparati della separatezza. È la convinzione che in quegli anni sulla consapevolezza della funzione liberatoria della democrazia politica (tema che è anche di Marx) prevale l’idea del suo rovesciamento. Ma quella consapevolezza resta, e si intreccia con l’altra. In che senso? Forse nel senso che la possibilità di riaffermare il “vincolo sostanziale” viene reso possibile dalla liberazione individualistico-borghese della società civile, che mette l’individuo, liberato dai vincoli di ceto, fra il proprio radicale egoismo (ecco riemergere il tema della “natura” umana) e la propria ugualmente radicale sostanzialità, liberando lo spazio della coscienza di sé, che era occupato e intralciato dai vincoli feudali di ceto e di corporazione. E bisogna aggiungere, come accennavo prima, che queste due “radicalità” si trovano in un rapporto oscuro, forse irrisolto, forse irrisolvibile.

8. E qui c’è un’altra ragione che fa comprendere perché Marx non torna ad elaborare e a confrontarsi con una filosofia dello Stato. Egli non è più interessato alla forma e agli spazi della mediazione, non più all’articolazione della differenza. L’interesse per il problema teorico è caduto nello stesso momento in cui si acuisce la lotta pratica e di direzione politica nella quale si possono aprire spazi di riflessione anche differenziati, non più, tuttavia, pregni di astrazione teorica. Un lavoro storico come Il 18 Brumaio mette in atto la rappresentazione di una dialettica che apre differenze e possibilità diverse nella lotta e nelle scelte pratiche, ma sullo sfondo rimane il vincolo di una visione che ha enormemente impoverito il terreno della “mediazione”, facendolo coincidere con l’astrazione potente di un potere arbitrario.

9. Marx insomma sembra interessato a individuare una potenza pratica, sostanziale, da contrapporre alla scissione. Questa potenza pratica ha più realtà della scissione, aderisce di più a quel vincolo sostanziale di cui la scissione sembra quasi essere il risvolto “irreale”, risultato di violenza. E qui sarei tentato di confrontare Hegel e Marx su un terreno sicuramente problematico che può essere formulato in estrema sintesi così: anche Hegel aveva pensato “dentro” la scissione (si pensi alla Differenz del 1802), ma al centro del suo pensiero eurocentrico si ergeva la mediazione come risolutiva di quella presente scissione, e il particolare della società diventava l’universale dello Stato; Marx, invece, immobilizza in sé stessa la scissione anche perché in lui cade la visione eurocentrica delle linee di movimento della storia mondiale e dunque cade una grandiosa potenza “mediatrice”, e la caduta di quella visione si rovescia sulle stesse strutture politiche. La storia entra in un gorgo che richiede un nuovo lettore delle sue dinamiche. La metafisica hegeliana subisce le conseguenze di questo stato di cose. Il nuovo continente di Marx non ha più alle spalle una geofilosofia consolidata. La sostanzialità dichiara di volersi liberare dalle forme che diventano gabbia violenta, perché meno giustificate e legittimate dalla forza di una geofilosofia. È insomma, tutto questo, anche la conseguenza dell’inizio della fine dell’eurocentrismo e su questo rimane impareggiabile la lezione di Carl Schmitt nel Nomos della terra.

10. Ma torniamo sulla questione principale. Se vogliamo cogliere qualche conseguenza della posizione di Marx, di cui ho ricostruito in nuce quello che mi pare il tratto principale, direi che va sottolineata, per le conseguenze anche pratiche sulla storia della democrazia europea, la sua critica della rappresentanza, che diventa la vera espressione della separazione tra vita sociale e vita politica. Essa non è la differenza di una identità, ma è segno di scissione e separazione. Marx sta su una lunghezza d’onda che non la può veramente incontrare. La sua visione è a fondamento di un‘altra rappresentazione (aristotelico-spinoziana) tutta tesa a ripristinare il punto di vista critico da cui spazzare via l’esistente. È lo Stato centralizzato, lo Stato-apparato che si deve assediare dall’esterno della sostanzialità e il Parlamento in questa situazione non aggiunge gran che. E nello stesso tempo, nella sua dimensione più alta e prospetticamente sul futuro, è la sostanza vitale che fuoriesce dalla forma-Stato, dando vita a una dimensione “politica” (o metapolitica, come dirò fra poco) oltre lo Stato, alla rottura del circuito politica-Stato, conducente in vie di estrema problematicità.

11. Questo è possibile anche per effetto della mondializzazione di cui Marx ha compreso l’incombente presenza. Essa depotenzia lo Stato, ne concentra la potenza, ma ne dissipa l’idea, e l’idea era la sua forza e legittimazione. Ne fa vedere la crisi e magari il tramonto, e anche perciò lo mette in una logica di forza che “desostanzializza” l’idea e sviluppa l’aspetto di repressione apparatistica. Lo stesso capitalismo ha un’anima cosmopolita e dunque in qualche modo antistatale. Lo Stato si concentra in un apparato difensivo, in quanto messo in discussione dallo stesso cosmopolitismo del capitale che tuttavia ha bisogno dello Stato, ma sempre più sembra, agli occhi di Marx, bastargli lo Stato-apparato. Anche se proprio Marx aveva intuito e descritto l’effetto liberatorio della democrazia puramente politica seguita alla rivoluzione della borghesia moderna. Capitalismo-comunismo: due forme di cosmopolitismo, due forme della mondializzazione; ambedue, ognuna da un lato, rompono i confini dello Stato-nazione. L’idea di Stato, ritiene Marx, non è più centrale, perciò lo si può spezzare o occupare e l’hegelismo diventa pura teologia politica. Fuori di esso, intraprende il suo cammino la democraziaverità che toglie ogni legittimazione sotto i piedi dello Stato e lo lascia in una solitudine dove ogni cosa e ogni violenza diventa possibile.

12. Che cosa concludere? La teoria dello Stato in Marx non giunge a toccare la storicità dell’astrazione hegeliana, la incontra nel 1843-44 e poi la perde di vista subito, quando sceglie il criterio di una criticità tutta esterna, rispetto alla quale la criticata astrazione dello Stato politico, pur carica di una sua vitalità, viene semplificata e ristretta in apparato repressivo di potere. Marx ipostatizza l’astrazione. La destoricizza. Le contrappone una identità che non penetra e non è penetrata da quella concreta astrazione che è la statualità.
Hegel costruisce la filosofia dello Stato rispetto alla costruzione della libertà dei moderni e cerca la mediazione per superare l’astrattezza originaria dell’artificio statale. Marx non penetra la concretezza dell’astrazione-Stato, la sua potenza mediatrice. La critica in nome di una identità presupposta, sostanziale, che però, insieme, è prodotta dallo Stato politico, nel senso che è il suo divenire a renderne pensabile l’esistenza.

13. Ma bisogna aggiungere, senza poter in alcun modo sviluppare il tema, che Marx riconquista il rapporto profondo con l’astrazione hegeliana quando penetra i rapporti capitalistici, a muovere dalla Introduzione del ’57. Il capitale non è una macchina da spezzare, ma dentro la sua astrazione si costituisce la coscienza di classe moderna. Come mai? Quale la ragione di questi due livelli differenti di comprensione? E si può mai penetrare l’astrazione capitalistica e nello stesso tempo progressivamente ridurre lo Stato moderno a mero apparato da occupare o spezzare? Qui forse gioca quella semplificazione ideologica, che ho prima ricordato, secondo cui al capitalismo basta lo Stato-apparato. Rimane così del tutto problematica la questione teoreticamente inquietante della sottovalutazione marxiana della storia dello Stato e della sua idea, e della influenza tragica che essa ha avuto sulla storia del Novecento e sulle esperienze pratiche più radicali che si sono formate avendo alle spalle il pensiero di Marx. La critica dello Stato moderno svolta alla luce di una sostanza profonda, mera identità senza differenza, conduce Marx verso una “metapolitica” destinata a non incontrare più la politica come mediazione, ovvero la costituzione di una identità che cerca di legittimarsi nella differenza.
In un certo senso, si può concludere che a Marx resta estraneo il patrimonio che si era accumulato nello Stato costituzionale europeo e di cui Hegel è problematico erede. Questo dato ha pesato come un macigno sulla storia dei movimenti e dei pensieri che si sono dipanati dal ceppo di Marx. La storia della democrazia europea è come sospesa fra la conquista di una criticità che deve a Marx più che a ogni altro, e l’arroccarsi di questa criticità in un luogo esterno all’oggetto che intende criticare, in modo che la conseguenza è che essa criticità si muove su su un piano che rischia di non incontrare mai l’oggetto criticato, perdendosi in una via senza sbocco. Questo mancato incontro ha segnato la storia di un secolo e più.
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