Rubbettino Editore
Rubbettino
Torna alla Pagina Principale  
Redazione: Fausto Cozzetto, Piero Craveri, Emma Giammattei, Massimo Lo Cicero, Luigi Mascilli Migliorini, Maurizio Torrini
Vai
Guida al sito
Chi siamo
Blog
Storia e dintorni
a cura di Aurelio Musi
Lettere
a cura di Emma Giammattei
Periscopio occidentale
a cura di Eugenio Capozzi
Micro e macro
a cura di Massimo Lo Cicero
Indici
Archivio
Norme Editoriali
Vendite e
abbonamenti
Informazioni e
corrispondenza
Commenti, Osservazioni e Richieste
L'Acropoli
rivista bimestrale


Direttore:
Giuseppe Galasso

Responsabile:
Fulvio Mazza

Redazione:
Fausto Cozzetto
Piero Craveri
Emma Giammattei
Massimo Lo Cicero
Luigi Mascilli Migliorini
Maurizio Torrini

Progetto grafico
del sito:
Fulvio Mazza

Collaboratrice per l'edizione online:
Rosa Ciacco


Registrazione del
Tribunale di Cosenza
n.645 del
22 febbraio 2000

Copyright:
Giuseppe Galasso
 
Cookie Policy
  Sei in Homepage > Anno VIII - n. 5 > Interventi > Pag. 589
 
 
Economia e storia nella formazione intellettuale di Giorgio Amendola*
di Valeria Sgambati
A ragione, si può dire che anche le ideologie e i movimenti politici i quali, nel secolo XX, si sono ispirati ai principi e agli ideali più rivoluzionari e internazionalistici, non sono sfuggiti al fatto e al destino di assumere, nel concreto della loro esperienza umana e storica, forme, versioni e applicazioni caratterizzate e condizionate dai contesti e dai modi nazionali in cui sono nati e si sono sviluppati. E ciò, non a caso, laddove maggiormente consistenti e significativi sono stati il loro pensiero e la loro azione politica.
Se si pensa al Partito Comunista Italiano, questo dato emerge con ancora più evidenza e nettezza e risulta, a mio giudizio, molto utile per comprendere e spiegare la sua singolare longevità e peculiare vitalità, rispetto agli altri partiti comunisti occidentali, pur ragguardevoli, come ad esempio quello francese.
Infatti, la sua storia è strettamente, e a volte specularmente, intrecciata alla storia italiana del ’900: dalla crisi del primo dopoguerra alla nascita e avvento del totalitarismo fascista, dall’antifascismo alla crisi economica successiva al 1929, dal corporativismo alla dissidenza fascista, dalla seconda guerra mondiale alla resistenza, dalla guerra fredda al lunghissimo ’68 e oltre.
Se è certamente vero che fino al secondo dopoguerra i “margini di manovra” consentiti e praticati rispetto all’URSS e alla Terza Internazionale, ovvero l’esercizio di autonomia politica e originalità teorica, furono certo esigui e discontinui, bisogna però non disconoscere che il “valore aggiunto” dei comunisti italiani – che avevano visto accrescere il loro consenso e peso specifico, grazie soprattutto all’adesione, in nome del più intransigente antifascismo, di nuove generazioni, provenienti soprattutto da ceti borghesi e intellettuali, e allo stimolo e apporto rappresentato in generale dalla ricchezza tematica e politica dell’antifascismo e della resistenza italiani – non fu irrilevante o peggio ancora insignificante. Come taluni, miopemente e unilateralmente, sostengono.
Emblematica in tal senso e più rappresentativa di altri dirigenti comunisti d’Italia, è proprio la figura di Giorgio Amendola, il quale con spirito d’avventura ma anche con coraggio e generosità si risolse a seguire, come disse, «gli uomini con le giacche di cuoio», pur di combattere attivamente e radicalmente il fascismo1. Egli, come è noto, compì la sua “scelta di vita” interpretandola, non soltanto a posteriori, come la più coerente e antitetica, e perciò più convincente, opzione politica e prospettiva storica antifascista. La sua adesione al marxismo e al comunismo avvenne infatti nell’Italia in cui si stava consolidando la dittatura mussoliniana e nell’ambito di una ricerca critica e autocritica delle cause storiche e politiche del fascismo. Lontana dunque dalla Terza Internazionale e dal suo settarismo e dottrinarismo e vicina viceversa all’esperienza di altri coetanei e intellettuali antifascisti di orientamento politico liberal-democratico e socialdemocratico e di orientamento culturale antipositivistico e/o neo-idealistico2.
Insomma, la conversione di Amendola fu dovuta ad una singolare confluenza di idee, eventi storici e tendenze culturali e politiche eterogenee e s’innestò su una ricca, eclettica e quanto mai precoce formazione ed esperienza umana e intellettuale, che era spaziata dall’innovativo e moderno liberalismo democratico di suo padre Giovanni, per il quale “la volontà” era il “bene”, al rivoluzionarismo gobettiano e all’austromarxismo; dal meridionalismo di F.S. Nitti e di G. Fortunato allo storicismo di Croce. Tra Roma e Napoli: tra le avanguardie artistiche e politiche romane e i “salotti” napoletani di Croce, Fortunato, Raffaele Piccoli, ex socialista e docente universitario di letteratura inglese, nonché l’Università partenopea, dove insegnavano, da lui seguiti, Arangio Ruiz, Cassola, Presutti, Graziani, Schipa, Aliotta.
Studi, più e meno recenti, hanno ricostruito l’importanza decisiva di questo suo periodo di formazione, anche per le conseguenze derivate al PCI da adesioni come la sua e come quella dei suoi giovani amici Emilio Sereni, Manlio Rossi Doria, Pietro Grifone3. Quando Pajetta ricordò “i ragazzi degli anni ’30” su «L’Unità» del 6 giugno 1980, in occasione della morte di Amendola, scrisse che egli «arrivò in quell’ora buia» come una luce, e i compagni più anziani come Togliatti e Di Vittorio guardavano a lui con orgoglio e con una speranza che si volgeva in certezza.
Fu Sereni a convincere Giorgio a diventare comunista, vincendo soprattutto le sue resistenze liberaldemocratiche, che non gli facevano accettare la dittatura del proletariato se non come misura e istituto d’eccezione, di transizione tutta giacobina oppure, come rammentò Rossi Doria, come un processo storico graduale, simile al concetto poi elaborato da Gramsci di egemonia, che ovviamente ancora non conoscevano4.
Quando s’iscrisse al Pcd’i, il 7 novembre 1929, anniversario della rivoluzione d’ottobre, Emilio si compiacque di avere vinto «la sua lunga battaglia personale». Ma, come scrisse Giorgio nelle sue memorie, «per non dargliela vinta gli dissi una meschina bugia», cioè che erano riusciti a convincerlo non i dotti discorsi di Mimmo – (pieni di erudizione e di conoscenze teoriche n.d.a.) – ma le poche parole dei compagni operai: «cominciava – ha scritto con autoironia Amendola – la mitizzazione della classe operaia», di cui negli anni repubblicani sempre più avvertì autocriticamente tutti i limiti politici e culturali5.
Per esempio, nel suo ultimo libro di memorie, Un’isola, pubblicato poco prima della sua morte, nel 1980, da Rizzoli, sottolineò il fatto che al confino la maggioranza dei comunisti proveniva dall’Emilia, dalla Toscana e dalla Puglia ed era composta soprattutto da braccianti e non da operai, e come fosse difficile nella quotidianità dei rapporti interpersonali il confronto tra operai e “intellettuali”; così come, negli anni ’70, metteva in guardia contro i nuovi miti dell’operaismo, della resistenza “tradita”, del maoismo etc., invitando gli iscritti al suo partito a dire “basta” alla perniciosa tendenza a creare nuove mitizzazioni, perché prima o poi «tutti i miti cadono», mentre resta il fatto che «noi – affermava Amendola – facciamo il nostro lavoro tutti i giorni, tutti i mesi, tutti gli anni, in una continuità di lavoro necessaria per condurre avanti un’opera di trasformazione come la nostra»6.
Certamente, al tempo del suo soggiorno a Napoli nella seconda metà degli anni ’20, non furono le poche parole degli operai napoletani “in carne ed ossa” ad averlo convinto della bontà del comunismo, perché il suo fu un travaglio intellettuale lungo e complesso e perché decisivi in quel travaglio furono non solo gli incalzanti eventi e fenomeni politici ma pure le spiegazioni e argomentazioni sempre più stringenti e convincenti che di essi dava Sereni, toccando questioni storiche e politiche di vitale e decisiva importanza per Giorgio, come la storia italiana e in particolare del Mezzogiorno, le condizioni sociali ed economiche dei contadini meridionali, il ruolo storico della borghesia intellettuale napoletana, la debolezza del capitalismo e delle classi dirigenti nazionali, le cause del fascismo e della sconfitta del movimento operaio e dell’antifascismo democratico, i conflitti generati dal nuovo imperialismo7.
Al tempo della crisi della civiltà europea e del totalitarismo fascista in ascesa, Amendola “s’ideologizza”, come fecero molti intellettuali europei tra le due guerre8, perde terreno sempre di più e abbandona le convinzioni e concezioni elitarie, etico-politiche della storia e pensa che in fondo la democrazia e il vero liberalismo non possono prescindere dalle masse operaie e popolari – le cui avanguardie a suo giudizio si erano rivolte e si rivolgevano verso il comunismo – ma dovevano invece in esse inverarsi. Occorreva andare tra loro, esserne parte, per poter dare quelle gambe che in Italia erano mancate alle idee, agli schieramenti e progetti politici democratici di grande audacia e modernità, come quelli dell’Aventino e dell’Unione Democratica Nazionale, ideati e capeggiati da suo padre, il primo intellettuale europeo a intuire e definire come totalitaria la natura politica del fascismo9. Spesse volte, negli anni della Repubblica, avrebbe rivendicato con orgoglio e ottimismo l’avvenuta integrazione nazionale e lo sviluppo consolidato della “coscienza democratica” della classe operaia e delle masse popolari, grazie anche, e per lui soprattutto, al PCI. In un’intervista rilasciata ad Arturo Colombo, sul «Corriere della Sera» del 12 aprile 1978, in piena crisi dovuta alla violenza politica e al terrorismo, Amendola sottolinea con forza le differenze con la situazione politico -istituzionale del primo dopoguerra.
Nel ’22 – disse – alla vigilia del fascismo, lo Stato liberale, non solo era diviso da profondi contrasti, ma non aveva neppure una vera base di consensi, perché le forze popolari, i socialisti e i comunisti da una parte, i cattolici, i “popolari” dall’altra, si erano sviluppati fuori o addirittura contro quel tipo di Stato monarchico, oligarchico, accentrato. Oggi, invece, oltre alla forma istituzionale, alla Repubblica, è cambiata la base dello Stato, che si presenta molto più larga, con un vasto consenso delle masse.

Perciò – secondo Amendola – «dopo la strage di piazza Fontana, dopo le bombe di Brescia, dopo gli efferati assassini di via Fani e il rapimento di Aldo Moro, le masse popolari si stringono a difesa della Repubblica, a salvaguardia della democrazia in pericolo».
Amendola, nel secondo lungo dopoguerra, in polemica soprattutto con Ugo La Malfa, vecchio compagno della sua precocissima militanza liberaldemocratica, affermava significativamente, anche se discutibilmente, che un partito politico era ciò che faceva e non ciò che dichiarava e che la ragione non è qualcosa che va rivendicata soltanto ma soprattutto va realizzata, concretizzata storicamente10.
Quasi certamente di ciò non era del tutto consapevole al momento della sua scelta di vita, ma questo fu il senno e il senso politico che poi, con molte contraddizioni irrisolte più che risolte, volle dare alla sua biografia e tentò audacemente, in anticipo sui tempi, di dare all’intera storia della sinistra e del progresso politico-sociale in Italia. La famosa frase, tante volte ripetuta, «mio bisnonno mazziniano, mio nonno garibaldino, mio padre antifascista, io comunista, questa è la linea del progresso politico nazionale» stava a significare tutto ciò e dava per scontato che ciò si fosse effettivamente realizzato. In un discorso alla Camera dei Deputati tenuto il 25 dicembre 1952, quello contro la cosiddetta “legge truffa”, Amendola sostenne, riecheggiando pure certe importanti considerazioni fatte dal padre pochi anni prima di morire, che
dal 1860 in poi si è venuto svolgendo un “processo di integrazione e di arricchimento della vita nazionale”. Il movimento operaio e socialista ha portato le masse operaie e bracciantili nella vita politica, le ha organizzate, ha dato a queste masse una educazione, una coscienza politica. Ma anche il movimento popolare cattolico, che fino al 1910 si è svolto spesso contro le resistenze delle alte gerarchie ecclesiastiche, ha dato un contributo importante all’estensione della base politica dello Stato italiano, con le cooperative, con i sindacati cattolici, con le organizzazioni contadine, e ha preparato l’entrata delle masse cattoliche nella vita nazionale. […] Questo “processo di arricchimento e di integrazione della realtà nazionale”, questa entrata nella vita politica dei lavoratori, tenuti fino a ieri esclusi e sottomessi, è il grande filo conduttore della storia italiana nell’ultimo secolo11.

La linea di larghe intese ed alleanze politiche e sociali, soprattutto coi ceti medi, delineata subito e anche praticata sempre di più, negli ambiti possibili, da Amendola non è però diventata la linea di tutto il partito comunista italiano, la sua strategia non è riuscita a imporsi, anche se di lui, come scrisse su «Rinascita» del 13 giugno 1980 Nicola Badaloni, si continuerà a parlare a lungo per la complessità della sua personalità tanto sfaccettata, per la sua capacità di porsi sempre «ai livelli alti dei grandi problemi del mondo» e per il fatto, si può aggiungere, che rappresenta ancora un esempio politico e umano da non tradire e da imitare, rimanendo validi e attuali certi atteggiamenti di democrazia come vita, una concezione “alta”, strategica ed etica della politica, certe personali scelte e disponibilità umane e intellettuali, talune importanti e coraggiose relazioni e battaglie politiche e le splendide, “teleologiche” e “pedagogiche” memorie12.
Sereni, provetto ricercatore alla facoltà di Agraria di Portici, sul finire degli anni Venti, per convincerlo ad aderire al marxismo e al comunismo nutriva i suoi discorsi e scritti non solo di riferimenti teorici, filosofici ed economici, ma anche di dati, statistiche, analisi economiche e sociali svolte sul campo, nelle campagne del Mezzogiorno continentale o nei settori industriali napoletani, insomma si basava su una “concretezza storica” e politica che a Giorgio faceva pensare per analogia a quella che ha definito la sua più autentica “guida culturale e morale”, cioè a Francesco De Sanctis, il quale, come ebbe a ricordare il suo allievo Giustino Fortunato,
trattava la politica in modo positivo e concreto, ossia con criteri desunti da dati di fatto e inculcava ai giovani la diffidenza verso i dogmi di ogni genere, verso i sistemi e le formule prestabilite. La politica, soleva dire, non è se non l’esatta conoscenza delle condizioni di un paese, e uomo politico non è se non chi ha un concetto preciso de’ mezzi adeguati per condurre un paese a stato migliore13.

Proprio durante il “braccio di ferro” con Sereni nel 1928-29, Giorgio stava preparando la sua tesi di laurea con Augusto Graziani – docente di Scienza delle finanze all’Università di Napoli fin dal 1898, indicatogli da Croce – su un tema considerato di impellente attualità, il credito al consumo, suggeritogli da Nitti, uno dei più importanti teorici italiani della democrazia politica ed economica. Graziani, allievo di Cossa e Ricca Salerno, liberaldemocratico “amendoliano” e antifascista, fu il primo italiano ad aver scritto un trattato organico di scienza delle finanze ai primi del ’900. Fu influenzato sia dalla scuola tedesca (Roscher, Schmoller, Wagner) che da quella anglosassone (S. Mill, Marshall), così come dai “colleghi” Achille Loria e Luigi Einaudi, per occuparsi di temi politico-economici come la “questione protezionista”, la disoccupazione operaia, la tassazione, ma anche di questioni di teoria e di storia dell’economia, come quelle relative alla correlazione e causalità nei fatti economici (teorizzando le “leggi di azione reciproca”) e, negli anni Venti, alla ricostruzione del pensiero di Ricardo. Amendola lo ha ricordato più volte con gratitudine e apprezzamento e la prima volta lo fece in un intervento parlamentare, il 30 luglio 1958, quando già le prime nubi sul boom economico italiano gli sembravano stagliarsi all’orizzonte: in Europa, disse,
il boom degli investimenti post-bellici è giunto alla fine e per la prima volta la crisi americana investe direttamente i paesi del vecchio continente, spazzando via le illusioni diffuse anche in seno al movimento operaio, della capacità del capitalismo moderno di assicurare, con nuovi strumenti di stabilizzazione, uno sviluppo continuo e ascendente dell’attività economica, una continuazione senza soste o cadute della curva ascendente. Senonché vi è anche una moda degli economisti e magari si ritorna, dopo 10 o 20 anni, a riproporre, con termini nuovi gabellati per invenzioni moderne, problemi già vecchi e superati. Mentre preparavo queste note, ricordavo la mia fatica di studente di economia all’Università di Napoli, negli anni tra il 1921(sic) e il 1930, sotto la guida del professor Graziani, vecchio liberale e ricardiano, che considerava le crisi come fatti inevitabili e positivi della economia capitalistica. Io, invece, sotto l’influenza di altri studiosi e soprattutto di Nitti, mi ero accinto a studi più aggiornati e preparavo una tesi di laurea sul credito al consumo, per ricercare come l’incremento del credito al consumo, cioè della vendita a rate, potesse portare a una anticipazione della domanda, ad un allargamento crescente del consumo, e quindi potesse sostenere un incremento ininterrotto della produzione, evitando lo scoppio di crisi di sovraproduzione14.

Oltre al tema della tesi di laurea, Nitti indicò pure a Giorgio l’autore che doveva seguire, Seeligman, un economista americano, e in particolare il suo libro appena uscito sul credito al consumo, insomma un problema e un autore legati al pensiero economico moderno e all’attualità sociale e politica.
Ma – scrisse Giorgio nelle memorie – avvennero due fatti che scossero le basi su cui avevo costruito la mia argomentazione. Nel novembre 1929 scoppiò la crisi economica mondiale. La rapida crescita del credito al consumo negli Stati Uniti, da strumento di espansione del mercato divenne di colpo motivo di caduta vertiginosa. I clienti, diventati disoccupati, non furono in grado di pagare le rate (delle automobili, delle case, ecc.) e determinarono così il fallimento delle imprese e delle banche che avevano concesso i crediti. Ero partito con una prospettiva di ordinata espansione della produzione con un mercato volutamente allargato e mi trovavo alle prese con la crisi di un mercato esaltato ed artificialmente esteso con impegni che non sarebbero stati onorati. Il castello di carta era caduto in poche settimane. Inoltre, mentre preparavo la tesi di laurea ero diventato comunista e nello scoppio della crisi avevo visto la prova della incapacità del capitalismo a contenere le proprie contraddizioni.

Il lavoro di Amendola vinse, unico concorrente, nel 1931, quando era già passato nell’illegalità, il premio Tenore dell’Accademia Pontaniana e la relazione a lui favorevole fu scritta da Epicarmo Corbino, il quale fu da lui ritrovato quasi vent’anni dopo, nel 1948, come “avversario politico” per poi essere «alleato contro la legge truffa nel 1953»15.
Augusto Graziani scrisse invece la breve relazione per la partecipazione al concorso, in cui affermava che
l’autore comincia col rilevare che sopraggiunta la crisi del 1920-21, gli Stati Uniti d’America cercano di superarla, pur mantenendo alti i salari ed ampliando e dirigendo il consumo interno verso un numero minore di articoli, che permette lo sviluppo della produzione in serie. Donde estensione del credito e consumo fornito attraverso il sistema di crediti rateali. Anche in Europa questo sistema si è sviluppato tra il 1926 e il 1928, ma con uno sviluppo non paragonabile a quello americano. Analizza i caratteri dell’installment selling attraverso una critica acuta delle opinioni degli scrittori e le manifestazioni di esso in vari momenti. Si diffonde sulle applicazioni del sistema e sui modi di concessione dei crediti, con particolare riguardo all’Italia. Premesso che ogni vendita a rate è credito consuntivo e che il credito consuntivo può assumere altre forme, l’autore trova che le obiezioni degli economisti classici al credito consuntivo perdono di efficacia nel periodo contemporaneo, nella società commerciale più sviluppata e richiama specialmente l’attenzione sopra l’ufficio di reintegrazione delle capacità produttive, che può attribuirsi a certi consumi. Ed atti improduttivi, d’altra parte, possono verificarsi nel processo stesso della produzione per errori tecnici, sperperi etc.; il concetto di produzione deve allargarsi e comprendere anche la creazione di future efficienze di progresso intellettuale ed il risparmio non deve considerarsi dal solo punto di vista delle ricchezze accumulate, ma da quello pure del risparmio personale consistente nel perfezionamento fisico, intellettuale del risparmio e dei suoi dipendenti (sic n.d.a.). Queste conclusioni dell’autore – sottolineava Graziani – possono sollevare dubbi e critiche ma la sua trattazione, quantunque segua le linee dell’opera maggiore sull’argomento, quella del Seeligman, presenta il pregio di una disamina delle dottrine e dei fatti sulla base del materiale che era possibile raccogliere dalle fonti non numerose16.

La crisi di Wall Street dunque gli era veramente “scoppiata fra le mani” buttando all’aria tutte le premesse della tesi, ma “l’infortunio” capitatogli «era –secondo lui – certamente meno grave di quelli provocati dalla crisi in tutto il mondo: chiusure di fabbriche, licenziamenti, suicidi. La crisi colpì duramente un mondo capitalistico che sembrava avviato verso un sicuro progresso. E di colpo giunge in Italia la notizia che il caffé si brucia, che il grano si dà ai maiali»; e tutto questo «pesò negli orientamenti politici che si determinarono in Italia. E d’altra parte agiva all’interno dell’Italia anche l’influenza delle prime notizie che arrivavano dall’Unione Sovietica, sul primo piano quinquennale»17.
La sensazione provata dal giovane Amendola circa l’incapacità del capitalismo di superare e risolvere le crisi economiche fu una sensazione piuttosto diffusa e condivisa dagli intellettuali europei in quel preciso momento storico, tra le due guerre mondiali, come hanno rilevato storici di diverso orientamento quali Bracher e Hobsbawm.
La grande crisi economica iniziata nel 1929 – ha sostenuto Bracher – ribadì ancora una volta «la contraddizione stridente tra pensiero progressista e pensiero catastrofico», tra coloro che sostenevano la possibilità di progressivi aggiustamenti sociali ed economici (soprattutto liberali e socialisti) e coloro che viceversa predicavano l’impossibilità della democrazia politica e sociale e del progresso economico (soprattutto conservatori ma anche rivoluzionari anticapitalisti).
Proprio il rapido progresso economico aveva portato attraverso le conseguenze difficilmente controllabili dell’espansione, a crisi economiche di massa quali non si erano ancora viste, e la moderna scienza economica, sempre più sicura di sé, cominciò a sua volta a parlare con tono fatalistico di cicli, di alto e basso invece che di superiore e ulteriore, di disoccupazione inevitabile e di indebitamento necessario dello Stato18.

ha scritto Hobsbawm
Il trauma della Grande crisi venne accentuato dal fatto che l’unico paese che aveva clamorosamente rotto con il capitalismo, cioè l’Unione Sovietica, sembrava esserne immune. Mentre nel resto del mondo, o almeno nei paesi occidentali del capitalismo liberale, vi era la stagnazione economica, l’URSS era impegnata in un processo rapidissimo di industrializzazione massiccia attraverso i suoi piani quinquennali, che triplicarono la produzione industriale e sconfissero la disoccupazione19.

Ma per Giorgio, che aveva visto consumarsi sotto i suoi occhi la tragica crisi e fine dello Stato liberale e della convivenza civile in Italia, la crisi economica della fine degli anni Venti non poteva essere disgiunta nel vecchio continente dalla più generale e storica crisi apertasi con la prima guerra mondiale, una crisi di valori, di civiltà, di razionalità occidentali. La sua radicalizzazione politica, infatti, è maturata proprio in corrispondenza della crescente consapevolezza di assistere a un declino ritenuto irreversibile della democrazia tradizionale, del «vecchio ordine, minato ormai profondamente dalla guerra» e di una “borghesia”, incapace «di affermare nuovi valori, anche morali e culturali»20. Nel 1928, ha scritto Amendola,
avevo appena letto i Buddenbrook di Thomas Mann, che riassumeva quella che era la grande eredità di una borghesia severamente impegnata nel suo lavoro ma che indicava già l’inizio della decadenza che doveva sfociare nel fascismo. Per me uomini come Albertini o Frassati rappresentavano quel sentimento del dovere e del decoro borghese che cercava di sopravvivere, quando la borghesia, diventata capitale monopolistico, aveva già mostrato col fascismo il suo crescente stato di decomposizione,

mentre prima «era stata la forza dirigente dell’Europa e dell’ascesa dell’Italia nei primi anni del secolo, e che poi era stata sopraffatta dalla improvvisazione facilona del dilettantismo del fascismo»21.
Agli inizi degli anni Trenta, in quel «centro culturale e politico che era a Napoli la casa di Croce, un giorno – ha ricordato Giorgio – come tanti altri personaggi, arrivò un grande uomo dell’alta cultura europea, lo scrittore Stefan Zweig poi tragicamente scomparso. Egli veniva dall’Unione Sovietica e già sapeva che ci avrebbe parlato dell’Unione Sovietica», a cui taluni grandi intellettuali europei come Romain Rolland, André Gide ed Henri Barbusse guardavano allora come al «centro di una rigenerazione mondiale».
Ha rammentato il dirigente comunista
Io mi affrettai quel pomeriggio (in cui doveva esserci Zweig n.d.a.) e, quando arrivai, Croce disse: “Venite, venite Amendola, ne sentirete delle belle sulla vostra Russia”. Questa frase dimostrava che Benedetto Croce si era già accorto di qualche cosa del mio nuovo orientamento. E Stefan Zweig cominciò a parlare della Russia, e ci parlò anzitutto della miseria. Era il 1931, e v’era certo molta miseria. Mancava il carbone per le abitazioni, mancava spesso la legna, il pane, v’erano le razioni. Fece un quadro abbastanza terrificante ed io ascoltavo con attenzione. E ad un certo punto domandai: “Ma questo sforzo, questi sacrifici come vengono accolti?”. “Eh, – rispose Zweig – ci sono certamente delle resistenze soprattutto nelle campagne, la famosa resistenza dei kulak, però debbo dire che vi è un grande slancio produttivistico, un elemento di impegno, una volontà popolare di creare qualche cosa di nuovo ne l’unità attorno al partito comunista della classe operaia”. Ed allora io mi rivolsi a don Benedetto: “Se noi dobbiamo misurare la libertà come voi ci dite, anzitutto, come elemento spirituale, e non dai dati materiali del benessere, Zweig sottolinea certi fattori spirituali di volontà, di creazione popolare, e di impegno morale che mi sembra siano dei fattori liberali”22.

Amendola, che aveva cercato un’interpretazione non deterministica ma volontaristica del marxismo e aveva creduto di trovarla nel comunismo prospettatogli da Sereni, il quale non aveva avuto fino ad allora rapporti effettivi col partito comunista, portò subito nella sua militanza all’interno del Pcd’I una concezione meno catastrofista ed economicistica della crisi in atto negli anni Trenta rispetto a quella della Terza Internazionale e anche alle valutazioni che ne faceva fino al 1930 «Lo Stato Operaio», la rivista teorica dei comunisti italiani pubblicata a Parigi. La correzione “anticatastrofista” apportata da Amendola è riscontrabile nel suo intervento al congresso di Colonia del PCd’I nel 1931 e negli scritti sulla situazione economica italiana, pubblicati senza firma nei numeri de «Lo Stato Operaio» dello stesso anno 1931, che si basavano sulle informazioni e sui dati fornitigli da Raffaele Mattioli, tramite Piero Sraffa, incontrato da Amendola a Cambridge23. Il più corposo di questi scritti, pubblicato sul numero 10-11 del 1931 de «Lo Stato Operaio», è quello intitolato Il dissesto della “Commerciale”, basato su elaborazioni economiche e statistiche e informative rigorosissime e di prima mano, messe a disposizione dallo stesso direttore della banca, Raffaele Mattioli; in esso il giovane Amendola illustrava «il contenuto del portafoglio azionario della Banca Commerciale, ceduto all’IMI. Una tabella delle partecipazioni della Banca Commerciale, con tutti i dati» e, quel che più conta, non pensava ad un crollo inevitabile o imminente dell’economia e della finanza italiane, perché, come scrisse, il problema era quello
di trovare le centinaia di milioni di credito di cui l’industria ha bisogno. Esso è un problema urgente per l’economia italiana. Bisogna risolverlo, e risolverlo presto, se si vogliono evitare crolli più vasti di quelli avvenuti sino ad ora. E il fascismo lo risolve così come ha risolto, sino ad ora, tutti i problemi economici che gli si sono presentati: cercando di utilizzare gli ultimi margini, mobilitando sino all’ultima delle risorse del paese per servire la grande industria e la banca, rinviando la questione, ma in pari tempo aggravandola, facendo sorgere contraddizioni sempre più profonde, suscitando problemi sempre più vasti.

Con gli scritti suoi anonimi ma anche con quelli di Vittorio Agresti, alias Emilio Sereni, pubblicati su «Lo Stato Operaio», si contribuì, come affermò nel 1975, a valorizzare la riflessione e lo studio sull’economia italiana portato avanti da alcuni comunisti italiani (come Sereni e Grifone), che rappresentavano «un carattere originale del PCI, gelosamente difeso, anche quando l’Internazionale Comunista cercò di affermare, dopo il VI congresso, il superiore valore delle “leggi generali” su quelle che apparivano pretese “particolarità nazionali e regionali”»24.
Sempre nello stesso periodo in cui era esule a Parigi, nel 1931-1932, Amendola fu incaricato da Togliatti di tenere i contatti con Sraffa, da cui si recò più volte, intavolando stimolanti discussioni anche con Maurice Dobb, che lo avevano indotto a molto riflettere e a correggere «frettolosi schematismi, già superati sul piano interno, ma ancora resistenti nell’esame della congiuntura internazionale» e a considerare necessario e imprescindibile avere rapporti con un osservatorio economico mondiale come quello inglese25.
Amendola, come già detto, volse sempre estrema attenzione ai dati concreti, ai fatti storici, sociali, economici, all’analisi delle statistiche e su di essi basò più volte i suoi articoli, saggi e interventi.
Franco Ferrarotti ha ricordato su «L’Unità» del 6 giugno 1980 che durante il loro ultimo incontro a casa Carli per un dibattito su J. Carter, Giorgio gli chiedeva insistentemente dati e informazioni che lo fecero sbottare facendogli provocatoriamente affermare che se era giusto rinnegare la propria giovinezza, non bisognava esagerare. Al che Amendola stette e poi sorrise, insegnando a Ferrarotti «l’inutilità dell’arroganza intellettuale».
La bussola storicista, viceversa, non fece mai peccare Amendola di economicismo e non lo fece cedere alle lusinghe delle interpretazioni e spiegazioni storiche e politiche schematiche e monocausali; perciò ha parlato pure di “astuzia della ragione”, di errori “provvidenziali” a proposito delle positive conseguenze indotte dalla “svolta” dei comunisti nel 1931, che decisero di puntare sull’azione politica antifascista all’interno del paese, e anche dalla “svolta di Salerno” del 1944. Le categorie e gli aggettivi di cui si serve Amendola non intendono manipolare la realtà storica, non sono ingannevoli e autoassolutorii, ma rinviano concretamente alla problematica dell’eterogenesi dei fini, che altro non è se non il complicato e non sempre prevedibile e lineare rapporto che nelle vicende della storia umana, individuale e collettiva, si stabilisce tra soggettività e oggettività, tra intenzioni ed esiti, tra scopi perseguiti e risultati, effettivi e duraturi, conseguiti, di cui hanno trattato e trattano grandi filosofi e grandi storici. Recentemente, anche uno storico come Hobsbawm, nel suo libro che interpreta il ’900 come secolo breve, afferma senza mezzi termini il carattere decisivo e “provvidenziale” per la civiltà europea dell’alleanza tra “capitalismo” e “comunismo” contro il fascismo, che è stata possibile perché avevano in comune i “presupposti umanistici e razionalistici” dell’illuminismo settecentesco, respinti invece dai nazi-fascisti26. Un’alleanza che, se sostituiamo il termine capitalismo usato dallo storico inglese, col termine liberalismo o liberaldemocrazia, sembra riguardare molto da vicino proprio la biografia e il contesto intellettuale di Giorgio Amendola.
Il grande dirigente comunista fu dunque impregnato, come disse Bufalini, di storicismo critico e si può aggiungere anche pragmatico, concependo, come Gramsci, un dialettico e stretto rapporto tra storia e politica, che non lo indusse, però, a considerare e teorizzare la prima in funzione ancillare e strumentale nei confronti della seconda. Basti ricordare come nelle sue memorie rammenti con imbarazzo e vergogna quando al confino di Ponza, nel redigere un quaderno dedicato al Risorgimento, avesse indicato nella prima edizione del 1934 Garibaldi come un precursore del fascismo mentre nella seconda edizione, del 1936-37, successiva alla svolta unitaria sancita dal VII congresso del Comintern, avesse rivendicato la continuità storica tra Garibaldi, Mazzini e il movimento operaio italiano, cancellando le “aberrazioni”
precedenti per indicare le origini risorgimentali del socialismo27. Insomma era passato, come ammise, da Arturo Labriola e Oriani per ritornare a Bolton King. E ancora bisogna richiamare alla mente come concepiva la storia del partito, che doveva essere un tutt’uno con la storia nazionale, oppure come, negli anni Settanta, rivendicando più volte l’autonomia della ricerca storica, difese la biografia di Mussolini di Renzo De Felice, a cui riconobbe di aver dato prospettiva storica al fascismo. Inoltre, nel recensire il saggio di Ernesto Ragionieri per la storia d’Italia di Einaudi, nel 1977, egli non si compiacque soltanto che il testo fosse nella scia intepretativa di Antonio Labriola e di Antonio Gramsci, ma anche del fatto che non fossero dimenticati “maestri” come Federico Chabod e Carlo Morandi. Asseriva Amendola, purtroppo inascoltato dai suoi eredi:
Più siamo spinti allo studio della storia contemporanea, più siamo obbligati a considerare gli avvenimenti ai quali partecipiamo con l’occhio dello storico (che non coincide meccanicamente con quello del politico), cioè a porli criticamente nel quadro dei processi che partono da lontano, più abbiamo la necessità di ricercare qual è il peso del passato, di quello remoto, che si fa ancora oggi sentire, quel passato che dobbiamo valutare in tutta la sua reale importanza se vogliamo trasformare il paese28.

Amendola è stato definito, con molte ragioni, considerata la complessa e sfaccettata formazione intellettuale, la vulcanica e anche contraddittoria personalità, un comunista nazionale, giacobino, riformista, liberale, socialdemocratico, dove l’aggettivo sembra qualificare meglio del sostantivo; ma forse sarebbe più giusto definirlo un “eretico” italiano, del ’900. L’eresia liberale lo fece diventare comunista e l’eresia comunista si può dire che lo risospinse vero i lidi liberali.













NOTE
* Questo testo è stato redatto per il Convegno “Giorgio Amendola. La politica economica e il capitalismo italiano», tenutosi a Milano il 18 giugno 2007, organizzato dal Comitato nazionale per il centenario della nascita di Giorgio Amendola, dalla Università degli Studi di Milano, dalla Fondazione ISEC.^
1 Cfr. G. Amendola, Intervista sull’antifascismo, a cura di P. Melograni, Bari, Laterza, 1976, pp. 11 sgg.^
2 Cfr. V. Sgambati, La formazione politica e culturale di Giorgio Amendola, in «Studi Storici», 32 (1991), pp. 729 sgg.^
3 Ibidem; cfr. anche G. Cerchia, Giorgio Amendola - un comunista nazionale, vol. I, Napoli, Pagano, 1998.^
4 Cfr. M. Rossi Doria, Quei giovani napoletani e la scelta di vita, in «Rinascita», 13 giugno 1980, testimonianza rilasciata da M. Rossi Doria a chi scrive.^
5 Cfr. G. Amendola, Una scelta di vita, Milano, Rizzoli, 1976, p. 263.^
6 Cfr. G. Amendola, Tra passione e ragione, Milano, Rizzoli, 1982, pp. 199-286.^
7 Cfr. V. Sgambati, La formazione politica e culturale di Giorgio Amendola, cit.^
8 Ibidem.^
9 Cfr. S. Forti, , Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. 3 sgg.; cfr. pure V. Sgambati, “Sfortuna” e attualità di Giovanni Amendola, in «L’Acropoli», 4 (2003), pp. 509 sgg.^
10 Cfr. G. Amendola, Tra passione e ragione, cit., p. 261.^
11 Cfr. G. Amendola, Discorsi parlamentari, Roma, Camera dei Deputati, 2000, p. 233.^
12 Cfr. V. Sgambati, Tra passione e ragione, tra democrazia e comunismo: l’itinerario di Giorgio Amendola, in «L’Acropoli», 7 (2006), pp. 196 sgg.^
13 Cfr. G. Amendola, Una scelta di vita, op. cit., p. 144; cfr. M. Rossi Doria, Introduzione a G. Fortunato, Il Mezzogiorno e lo Stato italiano, Firenze, Le Monnier, 1973, pp. V sgg.^
14 Cfr. G. Amendola, Discorsi parlamentari, op. cit., p. 402.^
15 Cfr. G. Amendola, Una scelta di vita, cit., pp. 195 sgg.^
16 Cfr. A. Graziani, Relazione di concorso. Concorso al Premio Tenore, in «Atti dell’Accademia Pontaniana», vol. 61, Napoli, 1931, pp. XXXIII sgg.^
17 Cfr. G. Amendola, Fascismo e movimento operaio, Roma, Editori Riuniti, 1975, pp. 85 sgg.^
18 Cfr. K.D. Bracher, Il Novecento - secolo delle ideologie, Roma-Bari, Laterza, 1984, pp. 195-196.^
19 Cfr. E.J. Hobsbawm, Il secolo breve, Milano, Rizzoli, 1997, p. 119.^
20 Cfr. G. Amendola, Una scelta di vita, cit., p. 255.^
21 Ivi, p. 209.^
22 Ivi, p. 256; cfr. G. Amendola, Fascismo e movimento operaio, op. cit., pp. 85- 86.^
23 Cfr. G. Amendola, Un’isola, Milano, Rizzoli, 1980, p. 34, p. 56, p. 67.^
24 Cfr. G. Amendola, Saggio introduttivo a P. Grifone, Capitalismo di stato e imperialismo fascista, Milano, Mazzotta, 1975, pp. 12 sgg.^
25 Cfr. G. Amendola, Un’isola, cit., p. 34.^
26 Cfr. E.J. Hobsbawm, Il secolo breve, cit., pp. 23, 175.^
27 Cfr. G. Amendola, Un’isola, cit., pp. 115 sgg., p. 181.^
28 Cfr. G. Amendola, Un secolo di storia unitaria, in «Libri nuovi», n. 1 (1977), pp. 1 sgg.^
  Cosa ne pensi? Invia il tuo commento
 
Realizzazione a cura di: VinSoft di Coopyleft