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L'editoria libraria tra concentrazioni e nuovi media
di Florindo Rubbettino
Da anni si assiste nel mercato dell’editoria libraria a un fenomeno di crescente
divaricazione tra grande e piccola editoria, fenomeno determinato dalla tendenza della grande editoria ad accentuare sempre di più la propria struttura a carattere industriale e le proprie strategie di marketing, dovendo fronteggiare una concorrenza che diviene sempre più spietata e che ha reso necessaria l’adozione di tecniche proprie della grande industria.
Tale divaricazione può essere riassunta all’interno di due paradigmi: quello della concentrazione e quello della frammentazione.
Come in altri ambiti dell’economia globale chi sceglie la via della concentrazione rinuncia alle differenziazioni e tende all’omologazione. Chi sceglie la via della frammentazione, al contrario, tende a esaltare le differenze e a fare di esse il vero punto di forza. Il mercato editoriale italiano rispecchia questa bipartizione, con la presenza di grandi gruppi editoriali da un lato e la presenza di una costellazione di medi e piccoli editori indipendenti dall’altro.
La tendenza alla concentrazione fa però sì che la gran parte delle quote di mercato siano appannaggio dei grandi gruppi, rendendo l’offerta culturale differenziata poco visibile. Nel 1981 in Italia 74 editori detenevano il 55% del mercato, nel 1989 il 50% delle vendite faceva capo a otto editori. Se guardiamo ai dati di vendita più recenti la situazione è ancora più eloquente: quattro gruppi editoriali (Mondadori, Rizzoli, De Agostini, Messaggerie Italiane) e circa cinquanta case editrici indipendenti di dimensione media raggiungono il 90% del giro d’affari del mercato librario.
Giovanni Ragone, sociologo della cultura, ha ricostruito per l’Italia le tre tappe di questa concentrazione:
La prima concentrazione avviene alla fine degli anni ’60, quando i baby boomers del ’46-’50 fanno lievitare la domanda. Sul modello Mondadori, dall’artigianato si passa all’industria. C’è una moria di case piccole e piccolissime. È la stagione della media impresa, si affermano Einaudi, La Nuova Italia e Sansoni. La seconda concentrazione è più pesante, verso la fine degli anni ’70 il capitale finanziario entra dell’editoria acquistando case, i cambiamenti di proprietà investono quasi un terzo degli editori. Nascono i grandi gruppi: accanto a Mondadori e Rizzoli, anche Fabbri, di proprietà Efi, si ingrandisce incorporando Bompiani, Etas, Sonzogno. La crisi di mercato fra il 1977 e il 1984 fa il resto. Quando il pubblico riprende a leggere si orienta verso i bestseller stranieri: pochi
possono permettersi l’acquisto dei diritti. Chiudono gli editori che avevano fatto il ’68, Laterza va in crisi, medie case come Einaudi vengono incorporate. E se la Feltrinelli resiste, perché i bestseller di qualità li aveva inventati lei, a fine ’80 restano due giganti in campo: Rizzoli e Mondadori1.

Ragone si sofferma sui rischi di quel processo:
L’accorpamento mette in pericolo l’identità delle diverse sigle che tendono così a diventare omogenee. Anche quelle che come Adelphi o Einaudi resistono lo fanno all’interno dei limiti imposti dai veri proprietari: la possibilità di rischiare nelle scelte e nelle innovazioni è limitata dai bilanci, nessun gruppo accetta che una delle proprie sigle lavori in perdita per più di qualche tempo. Naturalmente ci sono le eccezioni. Ma, in generale, le rendite di posizione dei piccoli editori ormai durano qualche anno. Poi, se inventano nuove tendenze, o vengono inglobati o si vedono duplicare le idee dai grandi gruppi2.

Tale processo è in atto anche sui banchi delle librerie. Come ha notato Ernesto
Ferrero l’omologazione verso il basso tende a spingere ai margini dei banchi o a buttarli fuori quelli che potremmo definire gli slow books, i titoli che hanno bisogno di più tempo per trovare la propria strada. E a soffrire di ciò non sono solo le piccole librerie, gli editori che curano le scelte di titoli di questo segmento, ma è l’intero sistema culturale del paese.
Come ogni imprenditore, anche l’editore per sopravvivere ha l’obbligo di sperimentare, fare laboratorio culturale, approfondire, aprire nuove strade. Questo è il suo lavoro e questi sono i suoi rischi. Tante piccole imprese editoriali costituiscono il laboratorio avanzato dell’innovazione, della ricerca e sviluppo culturali. Lo fanno in laboratori particolari quali sono le redazioni delle case editrici dove si sperimentano nuovi autori, nuovi generi, nuovi temi e spesso un mix di tutte queste cose.
Il problema è che non basta che sia solo l’editore a far questo, è necessario che lo faccia l’intera filiera. Se le librerie divengono sempre di più degli spazi dedicati all’editoria di intrattenimento, all’intrattenimento di massa, che è legittimo anzi necessario, ma che da solo non basta, non si fa innovazione culturale.
Oltre ai libri da raccolto (quelli che fanno fatturato), occorrono anche i libri da semina.
La struttura attuale dell’editoria libraria anche da questo punto di vista non aiuta. Se si guarda ad alcuni dei principali gruppi editoriali, si vede che essi non solo occupano la gran parte della produzione libraria, ma che intervengono anche in altri settori della filiera. Mondadori (produzione, altri media, distribuzione, pubblicità); Rizzoli (produzione e periodici); Gruppo Mauri Spagnol (produzione, distribuzione e principale catena di distribuzione); Feltrinelli (produzione e prima catena di librerie). Come ha notato Pierre Bourdieu la concentrazione editoriale genera una situazione per la quale la diffusione determina la produzione causando un inevitabile effetto di uniformazione dell’offerta.
I grandi editori pubblicano libri che devono scalare le classifiche, quindi inevitabilmente di autori noti al grande pubblico, di scrittori già affermati e di titoli che si assomigliano gli uni con gli altri in maniera impressionante. Niente di male, per carità. Ma in controluce da quanto detto emerge la ricchezza costituita dalla presenza di piccoli e medi editori per una società pluralista e quanto a loro debba essere grato chi in un paese ha a cuore la ricerca di nuove strade e il rifiuto dell’omologazione.
La democrazia presuppone che ci sia un’editoria libera, plurale e non assoggettata al potere politico o a potentati economici. Per questo c’è bisogno più che mai di voci che stonino nell’uniformità. C’è bisogno di piccoli e medi editori ancora di più quando i grandi sono troppo grandi. «Più idee sono una ricchezza», scriveva Karl Popper; «Non c’è niente di più raro e prezioso che una buona idea» era il parere di Albert Einstein. Queste due brevi riflessioni ci danno il senso dell’importanza non solo di chi le idee le genera, ma anche del ruolo e della delicatezza del compito di chi quelle idee le veicola, vale a dire l’editore.
E poiché le idee nascono e si sviluppano spontaneamente, la presenza di un’editoria libera è prima di tutto garanzia di civiltà, pluralismo e di fecondità culturale per un paese.
Qualcuno ha ricordato che la situazione di omologazione oltre a essere frutto del processo di concentrazione si è determinata anche con la fine della lunga e gloriosa stagione degli editori- intellettuali, o comunque degli editori che si circondavano di collaboratori dalla forte impronta intellettuale che contribuivano alla diffusione di libri di cultura o comunque di libri di “buone letture”. Ma bisogna chiedersi se quella stagione, al pari di quella attuale della concentrazione, non abbia anch’essa prodotto omologazione culturale.
Nel catalogo di molte di quelle case editrici, i cui grandi meriti culturali non sono in discussione, non c’era tuttavia spazio per titoli che fuoriuscivano da precise ortodossie.
La storia editoriale italiana del dopoguerra è fin troppo nota per essere ricordata. Una élite culturale ha dominato il campo decidendo cosa pubblicare e cosa non pubblicare e dettando i canoni per porre una linea di demarcazione netta tra ciò che era politicamente ed editorialmente corretto e ciò che non lo era. Intellettuali del calibro di Karl Popper, Ludwig von Mises e Friedrich von Hayek, per restare al campo delle scienze sociali, ma ovviamente il discorso può essere esteso a qualunque altro genere o disciplina, sono stati sistematicamente ignorati ed ostracizzati e, solo grazie alla perseveranza ed al coraggio di un manipolo di intellettuali e di qualche editore, sono alla fine riusciti a penetrare, con cinquant’anni di ritardo rispetto agli altri paesi dell’Europa occidentale, nel dibattito scientifico.
Bisogna chiedersi quanto quell’editoria in gran parte militante abbia contribuito alla circolazione delle idee e quanto, al contrario, abbia impedito, attraverso scelte improntate a precisi canoni ideologici e a censure, la circolazione delle idee altre. La sensazione è che i cataloghi di quegli editori non rilucessero apertura, confronti, aggregazione di più visioni del mondo, ma sovente chiusura, ostracismo e ortodossia.
Nonostante le due omologazioni, la prima ideologica, la seconda frutto dei connotati industriali assunti dall’editoria contemporanea, oggi credo si sia ad una svolta che lascia ben sperare per una serie di motivi.
In primis, come in altri ambiti (il design, l’arredo, l’enogastronomia, il turismo) anche nel mondo dell’editoria la sensazione è che dopo un periodo di ubriacatura per i modelli globalizzati e indifferenziati, oggi si tenda a riscoprire e rivalutare il valore delle differenze e, mutuando il termine dal settore enogastronomico, delle “tipicità”.
In secondo luogo l’informazione bibliografica, anche grazie alle nuove tecnologie, consente ai lettori di “navigare” tra i cataloghi delle case editrici e costruirsi dei propri percorsi di lettura. Viene meno perciò la necessità di fidelizzarsi, come accadeva in passato, a una o poche case editrici che divenivano delle vere e proprie agenzie di educazione culturale, ma anche di omologazione. Per questa ragione esistevano gruppi di lettori fedeli ai singoli marchi, che cercavano con continuità i titoli degli editori loro noti e delle loro collane. La fine dell’esistenza di tali gruppi di lettori viene da molti additata come il segnale della crisi dell’editoria attuale non più in grado di costruire identità precise e fisionomie riconoscibili all’interno della propria produzione e dei propri cataloghi. Siamo di fronte, invece e a ben vedere all’emergere, con buona pace dei nostalgici dei bei tempi che furono, di un lettore consapevole, in grado di orientarsi e scegliere nella pluralità delle proposte i propri percorsi di lettura che tanto più saranno fecondi quanto più usciranno dai solchi predefiniti delle ortodossie proposte dai cataloghi di pochi editori.
Sul fronte più propriamente commerciale e della diffusione dei contenuti, le nuove tecnologie possono ridare visibilità a tutta una serie di operatori la cui azione finora veniva offuscata dalle “viscosità” del mercato editoriale e ridare centralità e potere contrattuale a tutta una schiera di piccoli e medi editori che possono trovare il modo di tornare ai nastri di partenza di nuovo alla pari, o quasi, con i grandi editori. Certo serviranno anche investimenti, che solo i grossi gruppi possono sostenere. Ma allo stesso tempo si aprono spazi di opportunità anche per chi non può contare su grossi budget ma sulle idee innovative. L’importante è sapersi confrontare con questi nuovi strumenti e saperli utilizzare al meglio.
Una notevole quantità di contenuti prodotti in maniera innovativa, su misura o destinati a nicchie, spesso anche in una dimensione pressoché domestica, aumenta l’offerta culturale e le possibili modalità di fruizione. La comunicazione si fa integrata e interattiva.
Come spesso è avvenuto nel campo della comunicazione ad ogni innovazione negli strumenti del comunicare dalla nascita della scrittura, alla stampa, al cinema, all’elettronica, ai telefonini si ripropone l’eterna divisione tra "apocalittici” e “integrati”.
La verità è che ci sono spazi e opportunità sia per l’editoria tradizionale sia per le nuove forme di editoria.
Quello che è certo è che la tecnologia non è nemica dei contenuti, al contrario
può esaltarli. E che siamo lungo una linea di faglia: mutano non solo i supporti, ma anche il ruolo dei mediatori culturali. Ma è una sfida che gli editori
devono intraprendere e nella quale si possono intravvedere numerose opportunità, soprattutto per chi ha voglia di differenziarsi e di provare a rispondere alle esigenze delle numerose comunità di lettori.



NOTE
1 G. Ragone, Un secolo di libri. Storia dell’editoria in Italia dall’Unità al post-moderno, Torino, Einaudi, 1999.Top
2 Ibidem.Top
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