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Centocinquant'anni
di G. G.
Forse erano pochi quelli che, per la celebrazione del primo centocinquantenario dell’unità italiana, non si aspettavano che la ricorrenza fosse salutata con particolare entusiasmo. Era, però, difficile, nonostante tutto, prevedere che il tono non fosse quello della mancanza di entusiasmo, ma fosse, piuttosto, quello di una sottile, e anzi nemmeno tanto sottile, riserva o addirittura quello di un’esplicita e ampia negazione del valore sia storico che etico-politico di tale ricorrenza, non solo aritmeticamente cospicua.
Per la verità, le giustificazioni addotte per le riserve e per le negazioni sono state e continuano ad essere, per lo più, inani, e anzi molto spesso irritanti.
In parte, sono rimpianti per gli Stati italiani pre-unitari. È il caso soprattutto del Mezzogiorno, per il quale si è diffuso tra i meridionali, e non solo tra i meridionali, un rimpianto e una nostalgia, fondati per lo più su una incredibile esaltazione della floridezza e della tranquillità del regime borbonico nel Regno delle Due Sicilie. C’è chi scrive, senza arrossire, che, avendo conseguito un premio all’Esposizione parigina del 1856, il Mezzogiorno era la terza potenza industriale d’Europa; o che il regime borbonico era quello dell’ordine politico e finanziario; o che vi si viveva con una molto tenue pressione fiscale, e ciononostante il Tesoro borbonico aveva accumulato una cospicua ricchezza, finita poi dopo il 1860, a Regno caduto, nelle avide mani dei “Piemontesi”; che il Mezzogiorno reagì dolorosamente con una lunga “guerra di indipendenza”, misconosciuta come problema del “brigantaggio”, alla “conquista piemontese”, che sarebbe costata un milione di morte in dieci anni, e diecine di migliaia di deportazioni nei “lager” sabaudi; e così via.
In altra parte, sono recriminazioni altamente problematiche e antistoriche, come quelle fondate su una mancata soluzione federale del problema italiano, e sul tipo di Stato accentrato, giacobino-napoleonico, affermatosi con l’unificazione del paese. È il rimpianto, cioè, di quei mancati Stati Uniti d’Italia, che fu avanzato già più volte nella storia dell’Italia unita, e in modo particolare dopo la seconda guerra mondiale: il problema, detto in altri termini, della sconfitta di Cattaneo rispetto sia a Mazzini che a Cavour (per quanto dello stesso Cavour alcuni tendono ora a vedere una propensione federalistica di cui nessuno a suo tempo fece davvero alcun conto). Anche di questi vagheggiamenti federalistici il fondamento è, innanzitutto in linea di fatto, estremamente problematico. Pensare che la soluzione unitaria che prevalse venisse adottata senza matura riflessione, quasi fosse una soluzione preconfezionata, che attendeva solo di essere calata addosso alla realtà alla quale fu applicata, è un modo per lo meno ingenuo di vedere le cose. Si discusse, invece, largamente del problema accentramento o federazione (o altro di simile), e la conclusione centralistica fu dettata da riflessioni di ordine strettamente politico, legate alle condizioni in cui si era formato e doveva percorrere i primi e più difficili tratti del suo cammino lo Stato uscito dal Risorgimento. Di queste riflessioni, coraggiosamente realistiche, furono gran parte le larghe sezioni della classe politica italiana che aveva fatto l’unità, e ne governò a lungo i destini, provenienti dalle più diverse parti del paese, e talora addirittura più sollecite di quelle piemontesi nell’auspicare e chiedere l’organizzazione centralistica che ben presto si impose.
In altra parte ancora, non si tratta, però, né di nostalgie pre-unitarie, né di rimpianti del federalismo che avrebbe potuto esservi e che non vi fu. Si tratta, invece, di vere e proprie negazioni dell’opportunità storica e del valore dell’unificazione italiana realizzata col Risorgimento. L’unità italiana sarebbe stata frutto di un arbitrio antistorico, che portò a unire paesi e genti che erano divisi da mille anni e che di una tale divisione erano ormai profondamente, strutturalmente compenetrati. Più che un a vera e propria spinta interna all’Italia, fu il condizionamento dovuto al trionfo dell’idea nazionale in tutta Europa a portare su questa strada. Gruppi di ideologi, senza effettivo senso della storica realtà del paese, uniti alla volontà espansionistica della dinastia sabauda e delle classi dirigenti piemontesi, la imposero a una popolazione sostanzialmente riluttante, avvalendosi di varie circostanze ad essi favorevoli, e riuscirono a mantenerla in piedi per oltre un centinaio di anni, finché tra la fine del XX e gli inizi del XXI secolo la infondatezza di una tale arbitraria costruzione è venuta alla luce, e non a caso insieme al declino progressivamente più chiaro dell’idea nazionale in Europa e a un vero e proprio fallimento dello Stato nazionale, emerso già nel drammatico corso della seconda guerra mondiale, e reso definitivo dal contemporaneo declino dell’Europa e della sua posizione nel mondo.
È superfluo notare che, di tutte le negazioni, è proprio quest’ultima a rappresentare quella più deleteria e insidiosa. Essa dimentica, infatti, più delle altre, la connessione profonda che nel caso dell’Italia (ma in realtà in pressoché tutta l’Europa del secolo XIX) vi fu tra la causa nazionale e la causa liberale e democratica. Ovunque non si trattava soltanto di rivendicare l’autonomia e l’indipendenza, la dignità e l’unità della nazione. Si trattava anche di rivendicare e di realizzare un regime di libertà, il regime rappresentativo dei liberi ordinamenti moderni, le libertà di parola, di associazione, di manifestazione del pensiero, di azione politica e sociale, diventata dopo la rivoluzione francese un carattere discriminante della costituzione politica propria delle società moderna, per quanto il totalitarismo del secolo XX e innumerevoli tensioni e tendenze interne agli stessi paesi liberi le abbiano tante volte compresse o limitate, e sempre le minacciano tutt'ora. E questa non è una postuma o pretestuosa argomentazione storiografica o politica. Questo fu nella mente e negli animi, nel pensiero e nell’azione di coloro che i movimenti nazionali promossero e portarono a buon fine.
Per chi lo avesse dimenticato (o per chi, come di questi tempi può facilmente accadere, non lo sapesse) ricordiamo che sul frontone delle due torri laterali del monumento che in Roma fu eretto per il primo cinquantenario dell’unità italiana nel 1911, spiccano due scritte in oro: da una parte,
patriae unitati («all’unità della patria»); dall’altra parte, civium libertati («alla libertà dei cittadini»). E questa doppia dedica era, in realtà, sentita come un tutto unico, come un tutto inscindibile. La grande colpa che si fece al re Vittorio Emanuele III per aver accettato l’affermazione del fascismo e la instaurazione di un regime che soppresse in Italia le libertà politiche e le sostituì con un regime a vocazione e tendenza totalitaria, fu, per l’appunto, di aver dimenticato quel nesso, sancito dallo Statuto albertino del 1848: lo statuto, cioè, che fu per un secolo la costituzione italiana e al quale quel Re aveva giurato una fedeltà che col fascismo non mantenne, pur avvertito come ne fu da monarchici fedelissimi come Giovani Giolitti (ironia della sorte: il monumento del 1911, eretto per i primi cinquant’anni dell’unità in onore del nonno Vittorio Emanuele II, e contenente la doppia dedica all’unità e alla libertà, fu promosso, voluto e finanziato dallo stesso re Vittorio Emanuele III).
Quale sarebbe stata l’alternativa all’unità? Quale l’alternativa allo Stato realizzato con il Risorgimento? La libertà nell’ambito dello Stato Pontificio, dell’Austria dominante in Lombardia e nel Triveneto, dei Ducati padani, del Regno borbonico? Una esistenza internazionale non tanto dell’Italia quanto degli Italiani paragonabile a quella che lo Stato unitario ha assicurato ad essi fin dal primo momento dell’unità? Un’Italia unita, ma di una unità “leggera”, suscettibile di sfasciarsi alla prima forte strambata che le fosse capitata nel tempestoso mare della grande politica internazionale, in cui, grazie appunto all’unità, era finalmente rientrata dopo tre secoli di un’esistenza politica meschina, da semplice «espressione geografica», come la qualificava Metternich, espertissimo in queste faccende?
Ma a che pro' discutere di queste cose, che è mortificante dover ricordare, tanto sono elementari ed evidenti? Aggiungiamo solo una considerazione circa l’asserito “fallimento” dell’unità. Che cosa era l’Italia nell’oceano dell’economia mondiale nel 1860? Praticamente, nulla. Che cosa è oggi? Uno dei dieci paesi più avanzati del mondo. La realtà è che lo Stato unitario è stato il quadro di un successo clamoroso negli annali della storia economica contemporanea (come tutti gli studiosi della materia sanno e dicono), il quadro di un vero e proprio "miracolo" (come, per l'appunto, lo si è definito) in fatto di sviluppo e trasformazione economica e sociale. Fanno sorridere, quando sono sostenute da studiosi rispettabili, e fanno clamorosamente ridere, quando sono sostenute da altri, le tesi di quelli che pensano che l’unità non abbia avuto relazione con lo sviluppo delle regioni più avanzate d’Italia, le quali, dice qualcuno, si sarebbero sviluppate ugualmente, e si sono di fatto sviluppate, a prescindere dall’unità, come un Belgio o una Svizzera o una Olanda. Basta pensare a quel che la politica delle infrastrutture, la politica degli armamenti, delle fortificazioni e delle forniture militari, la politica del commercio estero, la politica fiscale e monetaria (che a lungo gravò alquanto di più sul Mezzogiorno che nel Nord) e altri aspetti della politica italiana hanno costantemente significato per lo sviluppo del capitalismo e dell’industria italiana, e il mito dello sviluppo spontaneo di alcune regioni si rivela subito per quel che è: un mito, appunto.
L’unità è stata, quindi, tutto un successo? Siamo ben lontani dal pensarlo. Centocinquant’anni dopo c’è ancora tutta in piedi la “questione meridionale”. D’Azeglio si sbagliava nell’affermare che nel 1860 era stata fatta l’Italia e bisognava, quindi, fare gli italiani. Era vero il contrario: gli italiani c’erano già da più di mille anni; quel che bisognava fare era proprio l’Italia, ossia l’Italia come grande Stato moderno, efficiente, razionalmente organizzato, e condotto secondo i criteri della moderna
great society maturata intanto in tutto il mondo, e politicamente non solo libero e indipendente, ma anche senza incrostazioni paralizzanti della politica, dell’amministrazione, degli interessi particolari e di simili altre delizie della vita pubblica e della vita sociale. Dopo centocinquant’anni questa Italia è ancora da costruire, essendo stata realizzata solo in parte, mentre intanto è prosperata come mai prima la malavita organizzata, e sono sopravvenuti io problemi della grande immigrazione allogena ed etero culturale, che caratterizza tutto l’Occidente contemporaneo. E non parliamo di tanti altri aspetti maggiori e minori che formano la vasta problematica dei mali dell’Italia di oggi.
Detto ciò, rimane fermo che l’unità è stata un successo, e ha concluso con una sostanziale riuscita la grande rincorsa all’Europa che l’Italia aveva cominciato con il Risorgimento sin dalla fine del secolo XVIII, dopo due o tre secoli in cui in Europa si era ritrovata sempre più marginale e dipendente. Lo stesso Mezzogiorno è rimasto distante dal Nord, ma è incomparabilmente più progredito di quello del 1860. Lo Stato italiano fa ancora troppo spesso disperare, e molto, i suoi cittadini, ma è uno Stato moderno non solo di gran lunga più moderno degli Stati italiani pre-unitari, ma la sua riforma è sempre possibile. Anche la vita sociale nell’Italia contemporanea è lontana anni-luce da quella di prima dell’unità, mentre molti dei problemi italiani di oggi (ivi compreso il problema della nazione e dello Stato nazionale) sono problemi tutt’altro che soltanto italiani.
Vogliamo dire, in sostanza, che non c’è bisogno di avere il mito e coltivare la religione del Risorgimento e dell’unità per celebrare fuori di ogni retorica, senz’alcuno spreco, con sobrietà e dignità, ma con positiva convinzione la ricorrenza dei centocinquant’anni dell’unità italiana. E vogliamo anche dire che il grave degli scetticismi o delle avversioni o delle derisioni o semiderisioni, che si avanzano verso tale ricorrenza con il coraggio di chi sa che più la spara grossa più viene ascoltato, non sono gravi per il valore di quella ricorrenza, bensì per il distacco che denotano dai valori indissolubilmente e innegabilmente, e positivamente, sono legati a quella ricorrenza, nonché per l’indifferenza o per la debole sensibilità che pure denotano alla realtà storica che quella ricorrenza ricorda. Il che non fa male all’unità italiana, ma ne fa molto alla vitalità di quei valori, con un rischio che non è tanto dell’unità (molto più salda di quanto non si creda) quanto proprio della sorte di quei valori nell’Italia e nel mondo contemporaneo.
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