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La nazione tedesca e le sue immagini tra Lipsia 1813 e Lipsia 1913
di Anna Maria Voci
I rapporti tra arti visive e politica, il fenomeno della continuazione della politica attraverso l’architettura, la scultura e la pittura, in particolare lo studio dei luoghi della memoria di una nazione, dei monumenti nazionali come punto o momento di cristallizzazione ed espressione della coscienza e identità nazionale, è certamente uno dei campi di studio interdisciplinare più interessanti ed avvincenti. Negli ultimi decenni tale studio ha avuto una certa fioritura, soprattutto a seguito della pubblicazione, negli anni ‘80, degli studi di Pierre Nora sui “lieux de mémoire”. In Germania il pioniere e capofila è stato un grande storico, Thomas Nipperdey, che nel 1968 pubblicò nella Historische Zeitschriftun saggio fondamentale, Nationalidee und Nationaldenkmal in Deutschland im 19. Jahrhundert, dal quale tutte le altre ricerche e gli approfondimenti ulteriori (tra cui spicca il libro di Reinhard Ailings)1 hanno preso le mosse. Questo è il caso anche del bel libro oggetto di questa recensione. Il volume di Massimo Ferrari Zumbini, Le immagini della Nazione. Nazionalismo e arti visive in Germania 1813-1913, Roma, Istituto Italiano di Studi Germanici, 2016, 542 pp., 30.00, dotato di un ricchissimo apparato bibliografico, espone in maniera chiara e dotta al pubblico italiano i risultati della cospicua ed articolata ricerca tedesca sul tema, e li arricchisce con annotazioni, giudizi e proposte interpretative non solo nuove, ma anche stimolanti a riflessioni, a qualche osservazione critica e ad ulteriori ricerche.
Il periodo esaminato dall’A. va “da Lipsia 1813 a Lipsia 1913” (p.9). Il 1813 è l’anno della battaglia di Lipsia, la “battaglia dei popoli”, che libera i territori tedeschi dal dominio di Napoleone ed è l’annuncio di un nuovo inizio verso il riscatto nazionale dei Tedeschi: per questo l’A. la definisce il “luogo della memoria” del nazionalismo tedesco (cfr. il I capitolo del libro). Il 1913 è l’anno dell’inaugurazione a Lipsia del colossale monumento commemorativo di quella battaglia. Il principale paradigma interpretativo del quale l’A. si serve per esaminare il rapporto tra nazionalismo ed arti visive in quel secolo è il binomio “tradizione e modernità”: valore della tradizione nella committenza ed esecuzione delle opere d’arte “immagini della Nazione”, da un lato, appello alla necessità di stare al passo coi tempi, di tener conto delle esigenze nuove della modernità, delle avanguardie artistiche, dall’altro. Ai due poli di tale binomio sono legati anche altri fattori che hanno avuto un ruolo talvolta decisivo in quella committenza ed in quella esecuzione: le rivalità dinastiche, cioè i contrasti tra le tendenze particolaristiche delle dinastie locali e tradizionali (basti pensare alla Baviera), e le tendenze centralizzanti di Berlino, la nuova capitale di tutto il Reich (la cui struttura è però federale), ed i contrasti confessionali, dove i cattolici, essendo “in difficoltà di fronte all’unificazione nazionale”, sono anche in difficoltà “quando si tratta di celebrare l’immagine della nazione” (p. 43).Ma nei decenni successivi al Kulturkampfil processo di integrazione li coinvolgerà sempre di più (p. 44).
Il libro è diviso in otto capitoli. Si è già accennato al contenuto del primo (Lipsia 1813: il “luogo della memoria” del nazionalismo tedesco). Qui di seguito ci si soffermerà brevemente sui seguenti. Il secondo capitolo, La Nazione immaginata, è dedicato ai due monumenti che in particolar modo furono intesi a promuovere l’unità nazionale. Il primo è il Walhalla, il monumento fatto erigere vicino a Ratisbona da Ludovico I di Baviera, dedicato a “ricordare e onorare i personaggi della storia e della cultura dei popoli di lingua tedesca” (p. 61). La sua denominazione riprende un termine dell’antica mitologia nordica, indicante il luogo nel quale sono accolti gli eroi caduti in guerra (p. 93). Il Walhallavenne inaugurato nel 1842, il 18 ottobre, il giorno anniversario della battaglia di Lipsia. Il secondo monumento è il duomo di Colonia, lasciato incompiuto per quasi tre secoli. In quello stesso 1842 iniziarono i lavori per completarlo, che dureranno fino al 1880. Il suo completamento fu fermamente voluto dal sovrano del Regno cui dal 1815 era stata annessa la Renania con Colonia, il re di Prussia, Federico Guglielmo IV, la cui profonda religiosità cristiana avrebbe tendenzialmente aspirato a superare le divisioni confessionali. Alla volontà del sovrano si aggiunse la forza di persuasione della pubblicistica. Secondo quanto argomenta l’A., soprattutto sulla base di testi di Ernst Moritz Arndt e di Joseph Görres, il duomo di Colonia era considerato simbolo vivente della storia tedesca, luogo della memoria di tutti i Tedeschi: per questo doveva essere terminato. La speranza era che la sua ricostruzione andasse di pari passo con la costruzione della nazione e contribuisse a far superare i contrasti confessionali.
Il terzo capitolo, La pittura della nazione in guerra, tratta della rappresentazione della guerra franco-tedesca del 1870-71, l’ultima prima della diffusione di massa della fotografia, che avvenne principalmente attraverso la pittura (p. 128). Ferrari Zumbini analizza qui attentamente motivazioni ed implicazioni di quadri raffiguranti taluni episodi di quella guerra da parte di artisti francesi (epopea della disfatta; premessa e promessa di rigenerazione dell’intera nazione) e tedeschi (celebrazione della vittoria, che è prova dell’unità nazionale raggiunta attraverso la fratellanza delle armi).
Il quarto capitolo, Il pittore dell’impero: il quadro occulto el’emancipazione ebraica, illustra l’opera del pittore Anton von Werner (1843-1915) ed è a mio giudizio uno dei più interessanti di tutto il libro. Werner, famoso e potente in vita, poi caduto in oblìo, fu uno dei massimi artisti cui i potenti affidarono “la rappresentazione del potere”. La sua opera più famosa è certamente la Kaiserproklamation, la raffigurazione in tre versioni (del 1877, 1882 e 1885), commissionate dai vertici della Corte prussiana, e attentamente studiate dall’A., della cerimonia svoltasi nel Salone degli Specchi di Versailles il 18 gennaio 1871, l’“icona della fondazione del nuovo Reich” (p. 215). In questo senso è appropriata la definizione di Hofmaler, pittore di Corte, data a Werner dagli studiosi tedeschi. Inoltre, “nei suoi quadri Werner rappresenta e interpreta molti altri aspetti della vita politica e sociale della élite che guida la nuova Germania: la corte prussiana e imperiale, i vertici militari, l’alta aristocrazia, i grandi eventi diplomatici e mondiali” (p. 215).Ferrari Zumbini, però, ritiene che Werner sia stato più di questo, in quanto eseguì anche opere commissionate dalla grande borghesia ebraica, in particolare un ciclo di dipinti per il palazzo berlinese della famiglia Mosse, nei quali l’artista avrebbe espresso la sua fede liberale e la sua critica al movimento antisemita. Uno di questi quadri raffigura un banchetto in casa della famiglia Mosse (Das Gastmahlder Familie Mosse), dove alla tavola ospitale dei ricchi padroni di casa Werner dipinse deputati liberaliprogressisti, come Albert Träger, Rudolf Virchow, Albert Hänel, ed il filosofo Heinrich Rickert, figlio dell’omonimo politico progressista. L’A. interpreta questo dipinto come “un’importante testimonianza artistica e ideale dell’assimilazione ebraica da un lato, e della condanna dell’antisemitismo da parte di Werner dall’altro” (p. 214).
Non solo. Secondo Ferrari Zumbini un altro quadro di Werner, Kronprinz Friedrich Wilhelm auf dem Hofball 1878, nel quale è raffigurato il principe ereditario Federico Guglielmo, le cui simpatie liberali erano ben note, mentre si intrattiene ad un ballo di Corte con alcuni esponenti politici, della scienza e della cultura, vicini al Principe per le loro tendenze liberali e progressiste (il sindaco di Berlino, Max von Forckenbeck, il patologo e deputato al Reichstag Rudolf Virchow, il fisiologo Hermann von Helmholtz e l’archeologo Ernst Curtius), nasconderebbe un messaggio “occulto”. Esso, cioè, sarebbe “un’opera che […] rischia di mettere Werner in una posizione difficile di fronte al nuovo imperatore [Guglielmo II, figlio di Federico Guglielmo] e di cui quindi l’autore evita accuratamente di chiarire in pubblico i riferimenti, storici e simbolici, a personaggi e temi ora sgraditi e che, per fortuna di Werner, non sono immediatamente evidenti” (p. 214). Ma a me pare che personaggi e implicazioni o riferimenti di questo quadro sembrino, oggi,ovvii, e tanto più lo dovevano sembrare allora, trattandosi di personalità pubbliche, le cui opinioni politiche, divergenti non tanto e non solo da quelle di Guglielmo II, bensì anche e soprattutto da quelle di Bismarck, erano più che note. Pertanto la tesi dell’A., secondo cui Werner, che iniziò questo quadro nel 1887, un anno prima della morte di Federico Guglielmo, e lo terminò nel 1895, e che politicamente era vicino al campo liberale moderato, non avrebbe potuto “più esporre apertamente una visione ideale”, notoriamente avversata dal nuovo e giovane imperatore, Guglielmo II, succeduto al padre nel giugno del 1888, e che pertanto l’artista mantenne “il silenzio sul significato storico-ideale nascosto dietro il realismo della sua rappresentazione” (p. 239), mi pare poco convincente. Fondamentale sarebbe invece sapere chi fu il committente del quadro. Ma questa informazione non è probabilmente più disponibile. Né Ferrari Zumbini, né Dominik Bartmann, che nel 1993 pubblicò il catalogo completo delle opere di Werner2, menzionano un committente. In altre parole: secondo me Werner eseguì, qui come nel resto della sua produzione, una scena di un evento mondano a Corte seguendo le istruzioni del suo committente, che potrebbe essere stato lo stesso Kronprinz, o forse la di lui consorte, Vittoria, figlia primogenita della Regina inglese. E proprio per questo il quadro fu portato avanti ben oltre la morte del Principe, divenuto imperatore il 9 marzo 1888 e deceduto il 15 giugno 1888: il figlio e nuovo Imperatore non lo avrebbe potuto censurare, se non altro per un senso di filiale pietaserga defunctos. A ciò si aggiunse, forse, la evidente punta anti-bismarckiana del quadro, che, dopo il brusco licenziamento del Cancelliere da parte di Guglielmo nel marzo 1890, poteva non risultare del tutto sgradita al giovane Imperatore. Werner, insomma, almeno a mio parere, non aveva ragione di temere, non aveva bisogno di “occultare” alcunché, visto che la costellazione ideale evocata dal quadro, il Kronprinz liberale circondato da personalità che condividevano la sua visione politica, è di immediata comprensione. Con la sua successiva interpretazione, e cioè che il quadro possa essere visto come il ritratto ideale di una Germania “liberale”, che poteva essere e non è stata, mi pare pertanto che Ferrari Zumbini attribuisca ad esso un significato che va un po’ oltre le effettive intenzioni almeno del suo autore.
Lo stesso vale per il quadro del banchetto della famiglia Mosse: più che pensare ad un intento esplicito di Werner di esprimere con questo dipinto una condanna dei movimenti antisemiti organizzati su base razziale più che religiosa, manifestatisi in Germania dalla fine degli anni ‘70 del secolo XIX, penserei piuttosto, anche in questo caso, all’esecuzione di un programma iconografico stabilito dal committente, Rudolf Mosse. A me Werner appare piuttosto un pittore per tutte le stagioni, un artista fortunato e parecchio disponibile, fino a diventare, come l’A. asserisce, riprendendo un giudizio del maggiore biografo di Guglielmo II, John Röhl, “il più influente rappresentante del potere nel campo della pittura” (p. 242). Per Guglielmo II, infatti, “Werner esercita un ruolo determinante, non solo come pittore, ma anche come principale collaboratore nel contrastare le tendenze ‘antinazionali’, moderniste e francesizzanti nella pittura. Il rapporto è reciproco: l’imperatore sostiene Werner in tutte le sedi e forme possibili, Werner interviene pubblicamente a favore delle scelte e delle indicazioni di Guglielmo.” (p. 246). Insomma, Werner riesce ad assurgere al ruolo appena descritto sotto Guglielmo II, un uomo dalle idee illiberali ed autoritarie e dai sentimenti antisemiti, e, al tempo stesso, tra il 1885 ed il 1899 esegue un ciclo di dipinti per il palazzo berlinese dei Mosse, in uno dei quali in particolare (Das Gastmahl der Familie Mosse, del 1899, piena età guglielmina) si sarebbe proposto di trasportare le sue convinzioni liberali ed il suo rifiuto dell’antisemitismo, raffigurando alla tavola ospitale dei Mosse esponenti politici liberali-progressisti; oppure dipinge tra il 1887 ed il 1895 un quadro con il Principe ereditario circondato da personalità liberali, a lui vicine, mediante il quale egli si sarebbe proposto di comunicare un messaggio di condivisione della fede liberale e di rimpianto per ciò che la Germania avrebbe potuto essere e non è mai diventata. Entrambi i quadri hanno certamente un messaggio politico. Credo, però, che non fu il loro autore, Werner, bensì piuttosto furono i loro committenti (nell’un caso Rudolf Mosse, nell’altro non sappiamo, forse lo stesso Principe ereditario) a volere rappresentare mediante essi “posizioni ideali e concretamente politiche, liberali, progressiste e di impegno contro il nuovo antisemitismo” (p. 254). Nel ripercorrere la carriera artistica di Werner viene alla mente l’opinione di Novalis, per il quale “un vero principe è l’artista degli artisti; cioè il direttore degli artisti. La materia del principe sono gli artisti. La sua volontà è il suo scalpello. Egli alleva e istruisce gli artisti, perché solo egli ha una visione d’insieme, e dal giusto punto di vista, del quadro, perché solo egli ha del tutto presente la grande idea, che deve essere raffigurata ed eseguita con l’unione delle forze e delle idee”3.
Il capitolo V (La statuomania: dai regnanti ai borghesi) contiene una panoramica delle diverse tipologie di statue e monumenti che esaltano l’unità nazionale e le glorie della Germania unificata ed esprimono in tal modo l’idea della nazione tedesca: busti di condottieri vittoriosi, statue equestri, monumenti ai caduti, statue a Lutero e ad altri personaggi illustri della cultura tedesca, quali Schiller, statue di Guglielmo I e di Bismarck, obelischi, torri, in particolare le cosiddette Torri di Bismarck. Sulla base di un’analisi molto attenta ed articolata l’A. definisce tale fenomeno una vera e propria “statuomania”, della quale distingue fasi e tipologie. È interessante seguire le accurate analisi e osservazioni dell’A. perché egli dimostra come, pur essendo questa “statuomania” diffusa a quel tempo anche in Francia e in Italia, essa tuttavia assunse in Germania, soprattutto in età guglielmina, dimensioni impressionanti (p. 265). Altrettanto interessanti sono le osservazioni con le quali Ferrari Zumbini illustra come mai il tempo delle statue a Goethe, sentito più come un cortigiano cosmopolita che come un patriota tedesco, giunga più tardi rispetto al tempo delle statue di Schiller, il poeta della libertà della nazione, pur se, anche in questo caso, vi è un limite politico-ideologico ad una convergenza realmente nazionale, proprio come, nel caso delle statue a Lutero il limite è di natura religiosa.
Il capitolo VI, I monumenti della nazione, contiene riflessioni di grande impegno e significato sulla categoria, appunto, dei monumenti nazionali, che l’A.. richiamandosi in particolare a talune osservazioni formulate ormai 50 anni fa da Thomas Nipperdey ed allo studio più recente di Reinhard Alings, definisce “sfuggente”. Essa è tale in quanto la stessa definizione di “monumento nazionale” è incerta, non sembrando sufficiente a definirli “nemmeno i criteri consolidati e apparentemente semplici: le intenzioni proclamate del progetto, la grandezza dell’impresa, le modalità di finanziamento, la definizione ufficiale formulata dall’autorità” (p. 361). Quali monumenti, dunque, possono qualificarsi “nazionali”? L’unico punto fermo è il nesso tra monumento e costruzione dell’identità nazionale (p. 361). In questo senso l’A. conviene con la conclusione di Alings per il quale “monumento nazionale non si nasce, si diventa” (p. 365). Si potrebbe forse aggiungere che ci deve anche essere, però, sin dalla commissione dell’opera, una qualche certezza, o quanto meno una speranza, nei committenti che l’esigenza del monumento sia avvertita nella coscienza dei più, sia, in altri termini, un’esigenza in qualche modo “nazionale”. Che questa esigenza “nazionale” sia un presupposto difficile da raggiungere è vero in particolar modo per la nazione tedesca, date le divisioni già menzionate dovute ai diversi patriottismi locali ed alle differenze confessionali. Partendo dalle premesse sopra accennate, l’A. si sofferma su alcuni monumenti cui è stata attribuita la definizione di “nazionale”, quali la Siegessäule a Berlino, commemorativa delle vittorie che portarono all’unità tedesca, o il complesso monumentale sull’altura del Kyffhäuser (tra Erfurt e Weimar) con il Barbarossa addormentato, che attende di svegliarsi per riportare l’Impero a nuovo splendore (1896). La trattazione di quest’ultimo monumento è preceduta da un’analisi puntuale del mito del “ritorno di Barbarossa”. Altri monumenti esaminati attentamente nel loro significato e nelle implicazioni sono quello a Guglielmo I di Porta Westfalica (1896), una cittadina vicino Detmold; quello sul Niederwald, vicino Rüdesheim (sul Reno, nei pressi di Magonza) (1883);infine il monumento, vicino a Detmold, ad Arminio il Cherusco, il “liberator Germaniae” che sgominò le legioni di Quintilio Varo nel 9 d.C. (1875).
Il VII capitolo è incentrato su Bismarck, il protagonista conteso, cioè sullo studio dei dipinti, dei monumenti a figura intera e delle tante torri dedicate a Bismarck. Si tratta di“un campo d’indagine particolarmente fertile per lo studio del simbolismo politico e delle varie immagini della nazione che si fronteggiano nel pubblico dibattito che accompagna la progettazione e la realizzazione di queste opere” (p. 403). E infatti non si può non concordare con l’A. che “proprio il personaggio celebrato in quanto artefice dell’unità nazionale si presta anche per riaffermare antiche divisioni e nuovi conflitti” (p. 403). Non solo: nella figura di Bismarck convergono tutti quegli elementi che l’A. indica come componenti principali del dibattito storico-politico sulle immagini della nazione nella pittura, nella scultura e nell’architettura: tradizione e modernità, Lokalpatriotismus, interessi dinastici e contrasti religiosi (pp. 403-404).
L’ultimo capitolo, Lipsia 1913: il monumento del secolo e la tempesta di Heinrich Mann, è dedicato a quello che, inaugurato nel 1913, era allora il più grande monumento d’Europa: il monumento commemorativo della battaglia di Lipsia del 1813 (Völkerschlachtdenkmal). Esso contiene un’analisi accurata della struttura e del significato di questo singolare monumento del “popolo”, dedicato ai soldati caduti in battaglia per la patria e privo di qualsiasi riferimento dinastico, che prese ispirazione dai colossi dell’arte egizia, ma nel quale confluirono anche elementi massonici. E Heinrich Mann? Ferrari Zumbini chiude il volume con un excursus originale ed intrigante, richiamando l’attenzione del lettore sul romanzo Der Untertan, uno dei migliori del prolifico e non sempre felice scrittore, fratello del giustamente più celebre Thomas. Esso fu terminato nel luglio del 1914, ed è uno degli esempi letterari più alti in cui è rimasto il ricordo della “statuomania” come uno dei segni caratteristici del periodo guglielmino (p. 472). Il protagonista, Diederich Heßling, prototipo del “suddito” di età guglielmina, debole con i forti e forte con i deboli, cinico e ipocrita carrierista, riesce a farsi nominare presidente del comitato per la costruzione di un monumento a Guglielmo I. All’inaugurazione di quest’ultimo Heßling pronuncia un lungo e ampolloso discorso durante il quale scoppia un temporale talmente violento da sconvolgere tutta la festa, costringere il pubblico alla fuga ed impedire all’oratore di terminare il suo discorso. È di grande interesse la lettura che l’A. suggerisce di questa scena: da un lato essa è “l’esatta, ironica inversione dei tanti resoconti di inaugurazioni di monumenti, che quasi sempre si aprono con l’esaltazione del Kaiserwetter, la giornata di sole che accompagna, quasi obbligatoriamente, l’evento commemorativo” (p. 473). Dall’altro lato, l’uragano che spazza via ogni cosa (tendoni, palco, pubblico, ufficiali, personalità, banda militare) è anche prefigurazione di un movimento politico, cioè la sovversione dell’ordine costituito, la rivoluzione. “I fulmini e i tuoni di questo uragano sono quindi la «prova generale» di ciò che verrà, sono addirittura i «cavalieri dell’Apocalisse»” (p. 473).









1 Monument und Nation. Das Bild vom Nationalstaat im Medium Denkmal – zum Verhältnis von Nation und Staat im Deutschen Kaiserreich 1871-1918, Berlin-New York, de Gruyter, 1996.Da menzionare è anche l’opera in tre volumi Deutsche Erinnerungsorte, a cura di E. François e H. Schulze, München, Beck, 2001.^
2 Anton von Werner. Geschichte in Bildern, hrsg. von D. Bartmann, München, Hirmer, 1993, pp. 370-372.^
3„Ein wahrhafter Fürst ist der Künstler der Künstler; das ist der Direktor der Künstler […]. Der Stoff des Fürsten sind die Künstler. Sein Wille ist sein Meißel. Er erzieht, stellt und weiset die Künstler an, weil nur er das Bild im Ganzenund aus dem rechten Standpunkte übersieht, weil nur ihm die große Idee, die durch vereinigte Kräfte und Ideen dargestellt und executirt werden soll, vollkommen gegenwärtig ist”(Novalis, Glauben und Liebe. Fragmente, 39 [1798]).^
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