Rubbettino Editore
Rubbettino
Torna alla Pagina Principale  
Redazione: Fausto Cozzetto, Piero Craveri, Emma Giammattei, Massimo Lo Cicero, Luigi Mascilli Migliorini, Maurizio Torrini
Vai
Guida al sito
Chi siamo
Blog
Storia e dintorni
a cura di Aurelio Musi
Lettere
a cura di Emma Giammattei
Periscopio occidentale
a cura di Eugenio Capozzi
Micro e macro
a cura di Massimo Lo Cicero
Indici
Archivio
Norme Editoriali
Vendite e
abbonamenti
Informazioni e
corrispondenza
Commenti, Osservazioni e Richieste
L'Acropoli
rivista bimestrale


Direttore:
Giuseppe Galasso

Responsabile:
Fulvio Mazza

Redazione:
Fausto Cozzetto
Piero Craveri
Emma Giammattei
Massimo Lo Cicero
Luigi Mascilli Migliorini
Maurizio Torrini

Progetto grafico
del sito:
Fulvio Mazza

Collaboratrice per l'edizione online:
Rosa Ciacco


Registrazione del
Tribunale di Cosenza
n.645 del
22 febbraio 2000

Copyright:
Giuseppe Galasso
 
Cookie Policy
  Sei in Homepage > Anno XVIII - nn. 5-6 > Interventi > Pag. 533
 
 
La stampa nazionalistica e Carlo Pisacane
di Leone Melillo
1. Una riflessione storiografica che non può prescindere dal “nazionalismo”

L’esigenza di rivelare le infinite connessioni che il fascismo e l’antifascismo hanno nella loro relazione storica con il Risorgimento, secondo la storia della storiografia di Carlo Pisacane, non può prescindere dal nazionalismo.
La “ragione storiografica” suggerisce di valutare, preliminarmente, la difficile condizione politica ed ideologica che il nazionalismo stabilì con il Risorgimento: «la nazione e la sua individualità [... dovevano] ridare autorità e finalità etiche allo Stato contro partiti, parlamento, burocrazia»1, per sottrarre l’Italia al «disfacimento morale».
«Il nazionalismo è ad un tempo espressione di un giusto orgoglio del miglioramento materiale e di una reazione al disfacimento morale»2, che «si rivela e si dispiega» anche come «il dramma del Risorgimento incompiuto»3.
«Ma le questioni pratiche non si risolvono così a tesi generali, dalle quali l’accordo che sembra raggiunto fra molti, esula non appena le si traducono in applicazioni particolari»4.
Si delinea «un filone ideale, che si riassume nell’inappagata esigenza rivoluzionaria del pensiero e della coscienza italiana» del Novecento5: il «principio di nazionalità [... del] Risorgimento italiano [...aveva] chius[o] ai contendenti un campo di battaglia aperto ad essi per secoli, [... aveva] tolto loro di mano l’oggetto di più accanite controversie internazionali».
Volpe, nella sua ricostruzione storica fa assumere al «Piemonte [...] la convergenza [... della] coscienza nazionale» già dal 1700. Ancora di più, secondo Volpe – con questa retrodatazione – «in Italia tutti erano stufi d[egli] stranieri [...], il popolo comprendeva il bisogno d’unione e [...] solo il Re di Sardegna incarnava la vera nazionalità italiana, [perché] rappresentava questo ideale d’indipendenza degli Italiani». Questa atmosfera “culturale”, “economica”, la «consapevolezza dell’impotenza dei piccoli Stati, senso di comune interesse», avrebbe già posto «atto» al «Risorgimento italiano», sollecitato anche dalla «nuova situazione dell’Europa»6.


2. Lo stato-nazione, lo Stato nazionale. La reazione al «disfacimento morale»

«La reazione nazionalistica agli anni di depressione italiana e di ideologia internazionalista»7 dei primi decenni del ventesimo secolo nega «l’esistenza d[egli …] interessi generali, comuni a più popoli. Ogni popolo – secondo Salvatorelli – ha i suoi propri interessi, inconfondibili con quelli degli altri, e non ha che quelli; perché lo stato-nazione, lo Stato nazionale, è l’ultima Thule della realtà. Ogni popolo, pertanto, deve unicamente lottare per il proprio vantaggio, con tutti i mezzi, cercando di ottenerlo a danno di tutti quanti gli altri popoli della terra, e non curarsi d’altro, perché quella è l’unica realtà»8.
Se Giuseppe Prezzolini riteneva che il «nazionalismo [fosse] ad un tempo espressione d’un giusto orgoglio del miglioramento materiale e d’una reazione al disfacimento morale»9, Corradini era convinto che «il popolo prolifico e paziente», «scosso dal torpore», potesse risollevarsi dal «disfacimento morale».
Ancora. Questa «divergenza fra il nazionalismo che da importanza alle questioni esterne senza pensare al rinnovamento interiore italiano, e l’altro nazionalismo, se così si vuol chiamare, che domanda che prima di pensare all’esterno ci si rinnovi degnamente all’interno, sorge più chiara, più evidente che mai e si impone alla coscienza di tutti»10.
«L’Italia ha sul collo i suoi politici ignari e debilitati; l’Italia è schiava d’una opinione pubblica delle sue classi colte che è tutta quanta una serie di luoghi comuni e di errori; l’Italia, in tutto ciò che fa e che non fa, appare misera, timida e povera»11.
«La nazione – sostengono i nazionalisti – è la massima società esistente […] e i gruppi interni della nazione sono gruppi minori». «E in Italia – evidenzia ancora Castellini – il nazionalismo è più necessario che altrove». Il «partito liberale ebbe una grande funzione nel Risorgimento, quando per ottenere la libertà degli individui dovette volere l’indipendenza dallo straniero e l’unità nazionale: ma, compiuta quasi l’unità – precisa Castellini –, la sua funzione cessò, dimenticandosi che occorreva assicurare la futura grandezza della nazione»12.
Bisognava comprendere – come precisava Alfredo Rocco – che «oltre l’individuo, oltre la classe, oltre l’umanità esiste la nazione, la razza italiana», gli «interessi nazionali» che devono essere «agitati» ed «imposti» alla «coscienza del popolo italiano [...] per un’azione concreta, chiara singolare».
Da «quaranta anni i partiti politici italiani si erano preoccupati dei più diversi problemi: della libertà, che nessuno ormai più minacciava; della democrazia, cioè della partecipazione del popolo al Governo, che, col suffragio universale, ha raggiunto i limiti estremi della sua realizzazione; del socialismo, ossia di quella ripartizione di quella miserabile ricchezza che la natura, avara e matrigna col popolo italiano, ci ha permesso di conseguire; della religione, che è una grande e rispettabile cosa, ma riguarda più la coscienza interiore che l’azione politica; del femminismo, dell’antialcoolismo e della vivisezione, ma nessuno (salvo Francesco Crispi, che ne morì di crepacuore), aveva parlato mai al popolo di quella piccola e miserabile cosa che è la nazione italiana. Ci si era dimenticati di questo particolare: che, oltre l’individuo, oltre la classe, oltre l’umanità esiste la nazione, la razza italiana»13.
Il Novecento, «temprato da formidabili esperienze politiche, sociali, spirituali, culturali [… poneva] la nazione italiana di fronte» all’«eredità passiva del Risorgimento […], rappresentata ad un tratto innanzi allo spirito italiano in tutta la sua spasmodica drammaticità»14, che fa assumere centralità alla scelta umana e politica di Carlo Pisacane.
In questa prospettiva, Pisacane appare come colui che «immolò ogni personale preferenza, pago e superbo di portare sulla bandiera tutti i dolori e le sventure, “gli affetti e le speranze” della patria italiana»15.


3. Sighele, Arcari e le ragioni del “disfacimento morale”

Quali le ragioni di questo “disfacimento morale”?
Secondo Sighele il nazionalismo era stato determinato dal «tramonto del patriottismo» e «dell’idea di patria», conseguente alla diffusione «fra i patriotti di quelle idee umanitarie e pacifiste che snaturavano il patriottismo, affievolivano ogni energia nazionale ed erano sempre scuola di rassegnazione, talvolta scuola di vita»16.
Anche Arcari avvalorava l’esistenza di «affermazioni antitetiche al patriottismo», sorte dal «crepuscolo del secolo XIX»: «di contro [a] quelli che alla patria pensano», «che sentono innanzi tutta la vasta solidarietà di essere italiani», ci sono «quelli che la dimenticano, [...] che, prima di un tal vincolo, od anche senza di esso ne sentono molti altri, di partito, di classe e di confessione»17. Anche nella convinzione di Castellini, i «nazionalisti non sono un partito di classe, neppure della classe borghese: rappresentano gli interessi di tutta la nazione»18.


4. Una valutazione del Risorgimento nazionale

Quale reazione poteva garantire l’esistenza della “nazione”, degli “interessi nazionali”, del “patriottismo”?
La convinzione che anima Corradini pone in relazione patriottismo e nazionalismo, precisando che questo non si risolve in quello: i nazionalisti «vogliono essere buoni italiani, e se patriottismo significa amor di patria, [...] patrioti», «perché il nazionalismo considera la nazione come una potenza per fare l’utile dei cittadini»19.
Questo nazionalismo, che disapprova le scelte politiche dei governi liberali, senza trascurare il tono polemico che smentisce validità al socialismo20, può valorizzare il Risorgimento italiano, solo assumendolo nel rispetto della propria identità: «durante la rivoluzione – anche se non può dirsi che la terza Italia sia stata fatta a spese del proletariato – il programma sociale fu – secondo Arcari – certamente sopraffatto da quello politico di indipendenza»21.
Un nazionalismo che confuta le ragioni dell’indirizzo politico liberale non può porsi nella continuità con quel Risorgimento da cui il liberalismo trae la sua premessa storica: l’attenzione deve essere rivolta alle idealità incomprese che possano giustificare l’esistenza della nazione italiana, senza imbattersi nel “volontarismo” che prescinda da questa condizione.
Un “certo nazionalismo” deve trascurare le espressioni ideologiche del pensiero politico risorgimentale che ha direttamente determinato l’unità italiana, ma al tempo stesso valorizzare la storia di quelle idee risorgimentali che possano confortare le sue ragioni ideologiche: il “ruolo” di Carlo Pisacane giustifica questa necessità e verifica le ragioni politiche ed ideologiche della difficile condizione nazionale, analizzata dai nazionalisti.


5. Carlo Pisacane nel “processo di trasformazione tra vecchia e nuova Italia”

Carlo Pisacane che evidenza, soprattutto nel conflitto ideologico determinato dall’avvento del Fascismo, quei contrasti già compresi dall’interpretazione storiografica nazionalistica, appare come «un patriota, un soldato delle campagne dell’indipendenza politica»22, «per la quale serenamente offrì il sacrificio della propria vita»23.
La stampa nazionalistica – che già dal 1913 pone attenzione a Carlo Pisacane – prelude all’avvento del fascismo, secondo una continuità storica che non può esemplificare la “necessità” di descrivere la contrapposizione teorica tra istanze repubblicane irrealizzate – impersonate esemplarmente da Carlo Pisacane – e realtà monarchica unitaria, che ha sempre suscitato interesse, per un’attenta ricostruzione storiografica che sappia evidenziare, nel Risorgimento, gli eventuali presupposti ideologici dell’antifascismo.
Una domanda del tutto ovvia. Quale Risorgimento aveva realizzato l’unità italiana?
Con l’“età giolittiana” e la Guerra di Libia, l’indirizzo politico liberale è esaurito dal contrasto con il partito socialista – che non rappresentava le istanze del socialismo di Carlo Pisacane – e con quello popolare.
La crisi del modello liberale induceva a riflettere.


6. I “fatti”, le “dottrine”, le “idee” nel Risorgimento

A tal riguardo il Romani, che riconosce al Croce la capacità di aver saputo «rivedere criticamente e idealmente il maltrattato Ottocento», addebita all’Autore di non aver saputo compiutamente «interpretare i fatti e le idee» e «la dimenticanza di fatti e dottrine, che se nel tessuto generale della storia possono avere poca importanza rendono tuttavia la visione incompleta»24.
La domanda che questa annotazione suscita è immediata.
Quale ragione può indurre a criticare la tesi crociana ondeggiando tra la “dimenticanza di fatti e dottrine” che non appare compiutamente, anche come “storia nazionale” del “nostro Risorgimento”? Analoganente, quale ragione può indurre a ritenere che Croce abbia disatteso di “controllare il suo giudizio storico, facendo assumere opportuna rilevanza alla “storia civile” ed a quella “ideale”?
La tesi negativa dell’“accidentalità storica” – che Croce applica al Fascismo – se vuole valorizzare la continuità “reale” tra il liberalismo risorgimentale ed il parlamentarismo italiano, non può irrimediabilmente ondeggiare tra una definizione – della Storia d’Europa nel secolo decimonono – che riconosce al Fascismo una imprecisata «funzionalità» per lo «sviluppo dello spirito»25 e la convinzione successiva secondo cui il Fascismo apparirebbe come un «morbo intellettuale e morale»26.


7. Una possibilità storiografica

I troppi contrasti, le troppe contraddizioni insanabili devono suscitare la necessità di una nuova ipotesi di lavoro.
Quale la possibile soluzione?
Sembrerebbe preferibile appellarsi alla stessa ragione che indusse Aldo Romano ad interpretare Croce facendo assumere rilevanza alla Storia di Europa, trascurando la Storia d’Italia, nella considerazione della Storia del Regno di Napoli.
Quale approccio metodologico può garantire questa esigenza interpretativa?
Una interpretazione che voglia comprendere le ragioni di una storiografia che si contenda l’identità politica ed ideologica di Carlo Pisacane non può prescindere dalla caratterizzazione delle sue scelte teoriche. Un’attenta valutazione dell’“approccio metodologico” con cui Pisacane operò le sue scelte teoriche può essere al tempo stesso utile alla comprensione delle sue scelte politiche che, per l’appunto, destarono e destano sicuri contrasti interpretativi.







1 G. VOLPE, Genesi del Fascismo, in Le cospirazioni fasciste, a cura di L. LOJACONO, Milano, 1935 p. 25.^
2 «Tutta la sua forza sta qui, e quando si fermasse qui, o meglio quando lavorasse a dare a queste due tendenze un’espressione politica, potrebbe fare un gran bene». G. PAPINI - G. PREZZOLINI, Vecchio e nuovo nazionalismo, Milano, 1914, p. VIII.^
3 C. CURCIO, L’eredità del Risorgimento, Firenze, 1931, p. 1.^
4 «E le applicazioni particolari del nazionalismo sembrano sbagliate, esagerate o mancanti di quella base di rinnovamento interiore che occorrerebbe: sempre poi a prescindere dal tutt’altro che trascurabile elemento degli uomini che lo impersonano». G. PAPINI - G. PREZZOLINI, Vecchio e nuovo nazionalismo, p. X.^
5 C. CURCIO, L’eredità del Risorgimento, p. 1.^
6 G. VOLPE, Italia ed Europa durante il Risorgimento, in Nuova Antologia, LXVIII, 1933, p. 483.^
7 Castellini ritiene che «Enrico Corradini […] dev’essere riconosciuto […] come il primo apostolo delle nuove dottrine. Il Corradini, dopo alcuni anni di propaganda personale e sporadica, era riuscito a fondare in Firenze nel 1904 una rivista, Il Regno, in cui è il primo nucleo delle sue teorie. E attorno al Regno era anche un vero e proprio movimento di propaganda, sebbene tenuissimo e ristretto quasi soltanto alla terra toscana di cui il Corradini è nativo: facevano capo a lui uomini come Giovanni Papini, divenuto poi spregiatore di ogni misura, insieme con i futuristi; e come Giuseppe Prezzolini – inacerbitosi poi nell’ossessione di polemiche, che fecero troppo spesso annegare le sue intenzioni e le sue qualità e gli fecero perdere di vista il nazionalismo per gli amori col socialismo –; e Giuseppe Antonio Borghese, che fu poi del nazionalismo volta a volta critico ed amico, ma sempre affine ed estimatore; e Pier Ludovico Occhini, rimasto al Corradini ed al nazionalismo fedelissimo» G. CASTELLINI, Fasi e dottrine del Nazionalismo italiano, Milano, 1915, p. 7.^
8 Secondo Salvatorelli, ai «politici “realisti” si può applicare la vecchia etimologia di “lucus a non lucendo”: si chiamano realisti – evidenzia Salvatorelli – perché incapaci di vedere la realtà […]. Ponendo lo Stato-nazione, (anzi, il loro Stato-nazione) come qualche cosa di isolato e di unico nel mondo, essi ignorano altresì ogni valore umano salve quello “politico puro”». L. SALVATORELLI, Irrealtà Nazionalista, Milano, 1925, p. 69.^
9 Questa osservazione coinvolge il Giolitti, «dominatore e addormentatore». G. PAPINI- G. PREZZOLINI, Vecchio e nuovo nazionalismo, Milano, 1914, p. III, IV, X.^
10 G. PAPINI- G. PREZZOLINI, Vecchio e nuovo nazionalismo, p. XI.^
11 E. CORRADINI, Il volere d’Italia, Napoli, 1911, p. 14. Secondo Salvatorelli, in «Italia il nazionalismo corradiniano ricopiava quello francese, e si riattaccava, attraverso esso o direttamente, al positivismo di Comte e di Spencer, finché ebbe incontrato sul suo cammino l’idealismo neohegeliano di Croce e Gentile». L. SALVATORELLI, Irrealtà Nazionalista, p. 179.^
12 G. CASTELLINI, Fasi e dottrine del Nazionalismo italiano, p. 39.^
13 A. ROCCO, Che cosa è il nazionalismo e che cosa vogliono i nazionalisti, Padova, 1914, p. 3 sgg.^
14 C. CURCIO, L’eredità del Risorgimento, p. 98.^
15 R. SAVELLI, Carlo Pisacane. Profilo, Firenze, 1925, p. 113.^
16 S. SIGHELE, Il nazionalismo e i partiti politici, Milano, 1911, p. 2; ID., Pagine nazionaliste, Milano, 1910, pp. 44-49.^
17 P. ARCARI, La coscienza nazionale in Italia. Voci del tempo presente, Milano, 1911, p. VIII, XIV, XVI.^
18 G. CASTELLINI, Fasi e dottrine del Nazionalismo italiano, p. 39.^
19 E. CORRADINI, Il nazionalismo italiano, Milano, 1914, p. 28 s.^
20 Il Nazionalismo italiano. Atti del Congresso di Firenze, Firenze, 1911, pp. 44-49.^
2121 P.M. ARCARI, Le elaborazioni della dottrina politica nazionale. Fra l’unità e l’intervento (1870-1914), Firenze, 1934-1939, I, p. 281 s.^
22 P. ORANO, Carlo Pisacane, in I patriarchi del socialismo, Roma, 1904, p. 132-134.^
23 F. VAIRO, Carlo Pisacane e la nazione armata, in Nuova Rivista di Fanteria, III, 1910, 5, p. 431-441.^
24 B. ROMANI, Croce e il Risorgimento, in Camicia rossa, 1932, 4, pp. 80-82.^
25 Il Fascismo «poiché è un fatto, deve adempiere un ufficio nello svolgimento dello spirito, nel progresso sociale e umano, se non come diritto creatore di nuovi valori, per lo meno come materia e stimolo al rinvigorimento, approfondimento e ampliamento degli antichi valori». B. CROCE, Storia d’Europa nel secolo decimonono, 1932, p. 309.^
26 B. CROCE, Chi è «fascista»?, 29 ottobre 1944, in R. DE FELICE, Il Fascismo -Le interpretazioni dei contemporanei e degli storici, Bari, 1970, p. 399.^
  Cosa ne pensi? Invia il tuo commento
 
Realizzazione a cura di: VinSoft di Coopyleft