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In ricordo di Ciampi
di Francesco Paolo Casavola
Dobbiamo a Ciampi la resurrezione della Patria, che consideravamo morta l’8 settembre del 1943. In quella data, la dissoluzione delle forze armate rischiò di implicare quella dello Stato, sventata appena con il Regno del Sud e la Repubblica Sociale al Nord, divisa la penisola tra gli occupanti tedeschi e i liberatori anglo-americani, ma soprattutto e più tragicamente tra fascisti e antifascisti, in una moltitudine di famiglie sfollate dai loro luoghi d’origine e decimate dalle operazioni belliche. Quasi per compensare l’immane vicenda di dolore in cui era naufragato il primo mezzo secolo del Novecento, la collettività italiana si è smemorata intorno ai valori della Patria e della Nazione, che pure avevano illuminato i decenni del Risorgimento e sostenuto il quinquennio del primo conflitto mondiale.
Patria e Nazione uscirono dal lessico quotidiano dopo che se ne era fatto abuso retorico nella propaganda fascista e nazionalista, per dare spazio a parole e fraseggi delle ideologie dei partiti di massa, che si contendevano aspramente il potere repubblicano. Fummo perciò subito colpiti dal ricorrere in Ciampi, Presidente della Repubblica, il richiamo costante alla Patria e alla Nazione, e non terminologico e cerimoniale, ma in crescendo sempre più concreto. Cominciò con il visitare le città italiane, quasi a voler far visita agli ottomila sindaci che amministrano la vita quotidiana di tutti i nostri concittadini. Era tutt’altro che turismo politico. Era la ricerca di un rapporto personale con gli abitanti dei nostri territori e con i rappresentanti cui avevano in qualche modo affidato i propri bisogni e speranze. Occorreva conoscersi meglio e di più oltre le evenienze elettorali e amministrative, scambiarsi informazioni e propositi.
Ciampi conosceva l’Italia non solo geograficamente, ma anche storicamente. A volte un viaggiatore consapevole sorprende chi non si è mosso dal suo paese d’origine. Ascoltai Ciampi, a Napoli in una sua prima visita di Stato, ragionare in una affollata sala della Prefettura, sui problemi dei trasporti tra Nord e Sud della penisola, fino a una proposta che lasciò molti ascoltatori con pensieri inconsueti. Dinanzi ai costi dei trasporti su terra, ferroviari e automobilistici, come non spostare lo sguardo sulle straordinarie idrovie che collegano in una notte i punti estremi della penisola, e che si chiamano Tirreno e Adriatico?
Di Ciampi occorre conoscere non solo le tappe della sua singolare carriera ma anche le sue esperienze di uomo di studi. Fin dalla giovinezza era stato attratto dal mondo classico.
L’Italia era al centro di quel mondo. Del Dizionario di Oxford se ne davano le dimensioni, 1288 kilometri di lunghezza, 240 nella larghezza massima. E poi fin d’allora i tanti popoli che l’abitarono, diversissime per razza, lingua e civiltà. Per la diversità dei climi, dei paesaggi, delle risorse, l’Italia attirava popoli in migrazione e popoli invasori. Dai primordi alla modernità, malgrado le grandi esperienze unitive dell’Impero romano e del Cristianesimo, l’Italia è tornata a proporsi nel paradigma della diversità e della divisibilità delle sue popolazioni. Non è di poco conto che nel proclama costituzionale che anticipò lo Statuto di Carlo Alberto del 4 marzo 1848, si usasse il plurale “popoli” italiani. E l’Unità realizzava con consapevole realismo l’annessione dei sette stati preunitari al Regno di Sardegna, il cui sovrano Vittorio Emanuele non mutò il numero ordinale di Secondo, quale era nella sequenza dinastica dei Savoia, mentre avrebbe dovuto esser Primo volendo dare inizio ai Re d’Italia. Così anche il termine Patria evocava più le patrie locali che non quella, una sola per tutti, della intera penisola. Fece ingresso per Lei la Nazione, una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue, di cor, nell’endecasillabo manzoniano. Ma anche la Nazione divenne altra cosa che la comunità, la casa fraterna degli italiani. Nazione armata, in cerca di spazi vitali dietro una tardiva politica imperialista.
I vocabolari dei grandi partiti di massa non citavano Patria e Nazione. Ritrovare quei termini imponeva un pellegrinaggio in tutte le contrade italiane. All’inizio potè sembrare che Ciampi optasse per una capitale itinerante, il Presidente della Repubblica ospitato dai sindaci. Ma si capì presto che in quella operazione di riscoperta della Patria la regola di Ciampi era quella della reciprocità tra le parti e il tutto. I territori e le popolazioni entravano in una esperienza di conoscenza e riconoscimento da che rappresentava l’unità nazionale, e contemporaneamente superando il localismo si affacciavano sull’Italia e sull’Europa. Non per caso Ciampi è stato un forte sollecitatore della integrazione europea. Ma la prima via per la riscoperta della Patria restava quella sentimentale della filialità. La dedica scelta per un suo libro ha questo basso profondo: “al mare di Livorno, di cui sono figlio – alle montagne d’Abruzzo, che mi hanno adottato". La filialità naturale e quella adottiva, il mare e le montagne. Ho sperimentato la visione delle sue immersioni marine e nell’aria di montagna quasi la ritualità di un battesimo nella religione della Patria. Ma la natura ha per compagna la storia. Livorno fin dal XVI secolo fu ospitale e tollerante per cristiani ed ebrei, ortodossi e musulmani, valdesi e protestanti. La multireligiosità come dato culturale della società livornese ha avuto un irradiamento lento ma di lunga durata nella evoluzione politica e costituzionale della intera comunità italiana.
Ciampi aveva respirato l’aria di quella città-asilo, come ebbe a chiamarla. Educato alla fede cattolica in famiglia e nel ginnasio-liceo dei Gesuiti, a quella laica, specie dal suo maestro Guido Calogero, nella Scuola Normale Superiore di Pisa, Ciampi si costruì quel “Maestro interiore” evocato da Sant’Agostino, cui ogni coscienza umana si rivolge per intendere il significato della vita. In un tal clima di religiosità laica, Ciampi dopo la laurea in Filosofia classica, e già insegnante di liceo, acquisì la seconda laurea in Giurisprudenza, nell’Università di Pisa, discutendo con il relatore Costantino Jannacone una tesi su “La libertà delle minoranze religiose nel diritto ecclesiastico italiano”. Ma questa seconda tappa accademica era già annodata nei fili di quel che sarebbe diventato il destino politico della sua vita. Era l’anno accademico 1945-46. Qualche anno prima, dall’8 settembre del 1943, Ciampi aveva vissuto la dissoluzione dello Stato nei termini drammatici, per un ufficiale, di come tener fede al giuramento alla Patria. Quel che per altri era la morte della Patria, fu per Ciampi la rinascita della Patria.
La migrazione da Livorno a Roma, per raggiungere l’Albania, dove era stato destinato, ebbe la variante in Abruzzo, a Scanno, per unirsi a quanti sceglievano di passare le linee tenute dai tedeschi e raggiungere gli Alleati e continuare la guerra dal Sud. Qui matura l’adozione delle montagne d’Abruzzo. La duplice filialità livornese e abruzzese è la culla della rinascita nel cuore di Ciampi della Patria. Come si vede l’intreccio dei fili sentimentali e religiosi, intellettuali e politici è ben stretto. La sopravvenuta laurea in Giurisprudenza gli agevolò un impiego nella filiale di Macerata della Banca d’Italia, che era ancora una faccia, concreta e severa della Patria, da servire con lo stesso inflessibile rigore di quando indossava il grigioverde della divisa in guerra. Mi distanziavano da Ciampi più di dieci anni. Ma quando ebbero inizio i nostri incontri istituzionali, egli Governatore della Banca d’Italia, io Presidente della Corte Costituzionale, quel divario d’età fu come abolito dalla percezione di avere vissuto la stessa epoca della storia italiana, quella che avremmo potuto chiamare entrambi della rinascita o del ritrovamento della Patria.
Non ricordo di avergli rivelato che, terminato il Liceo “Rinaldini” in Ancona, mi iscrissi per i due primi anni di Giurisprudenza a Macerata, allora quella Università aveva una sola antica e gloriosa Facoltà, quella appunto di Giurisprudenza. Dato il rallentamento dei concorsi e delle chiamate sulle cattedre maceratesi insegnavano giovani e anziani professori, che di lì a poco si sarebbero trasferiti nelle grandi Università dalle cui scuole prestigiose provenivano. Intanto portavano nella periferica Macerata indirizzi e metodi dei maggiori maestri di Napoli, Roma, Firenze e altre capitali della cultura italiana. Ne risultava per Macerata un habitat di provvisorietà coloniale più che di residenzialità definitiva. Lo stesso stato d’animo vivevano gli studenti, giornalieri viaggiatori dalle varie province marchigiane, già romagnoli dal pesarese, e abruzzesi dall’ascolano, e umbro-toscani lungo l’Appennino.
Erano gli anni dell’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica. E studenti e professori ne discutevano al di fuori dei formalismi accademici in improvvisati peripati, talora confluenti nelle mense della Casa dello Studente. L’Università maceratese di allora aveva un arredo solenne, con cattedre sopraelevate di vari gradini rispetto ai banchi studenteschi, e protette da una tettoia che le faceva assomigliare ai pulpiti di chiesa. Non favorivano nulla più che l’ascolto della lezione. Ed invece il mondo nuovo della Costituzione aveva bisogno di dialogo quando non di dibattito, tra generazioni che avevano attraversato la difficile frontiera di monarchia, fascismo, guerra e conflitti sociali e ideologici di grandi partiti. Si andava formando una comunità di cittadini per gli affollati comizi e le consultazioni elettorali di una democrazia appena resuscitata.
Il nucleo universitario nella piccola città marchigiana provava a far la sua parte. Vi era rappresentata nelle sue diverse età la piccola e media borghesia delle professioni, degli impieghi pubblici e privati, dei commerci e artigianato, della proprietà terriera. Era una realtà economico-sociale prima che politica, culturale e morale, erede di lontane tradizioni ed insieme proiettata verso un diverso avvenire. Il confronto tra le diversità delle tante provenienze familiari e municipali era uno stimolo a intendersi meglio e ad unirsi in più forti allineamenti civili. Non abbiamo avuto occasione di dircelo, Ciampi ed io, ma la giovanile esperienza maceratese dovette sollecitare in entrambi un’attenzione per il passaggio dalla microstoria cittadina alla grande storia nazionale, nella quale le nostre vite sarebbero state chiamate a servire.
Altro fattore che lasciava intravedere comuni ispirazioni tra noi era la funzione attribuita alla cultura, come apprendimento e trasmissione di umanità. Ciampi aveva avuto due predilezioni intellettuali, per la filologia classica e per il diritto, che anch’io ho sempre considerato pilastri della civilizzazione occidentale. La sua scomparsa, per quanti erano cresciuti nel modello del suo stile e delle sue virtù, sarà avvertita in questi giorni come il punto più acuto della crisi interiore che ci angoscia. Ma se Egli, come credo, ci ascolta, non tarderà a incitarci di tornare a lottare.
Ha ragione Paolo Peluffo a chiamarlo “Mio Generale".
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