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La triste utopia di una scuola senza insegnanti
di Giovanni Carosotti
I mutamenti radicali che hanno investito la scuola italiana a partire dall’approvazione della Legge 107, nel giugno 2015, hanno conosciuto nei tempi recenti una vistosa accelerazione; con il proposito, da parte dell’esecutivo, di rendere alcune trasformazioni, pur controverse e non condivise da buona parte del corpo docente, ormai irreversibili.
La Legge 107 è stato però l’esito di un lungo percorso, più che ventennale; percorso che l’Acropoli ha commentato e sottoposto ad analisi critica con costante periodicità: dal confronto tra le proposte di riforma dei ministeri guidati, rispettivamente, da Luigi Berlinguer e da Letizia Moratti1, alla riflessione sugli assunti teorici riguardanti la didattica che a quei progetti di riforma erano sottesi2, e che poco alla volta sono stati comunque introdotti, quasi sempre in modo surrettizio, negli ordinamenti. Nel contempo, la rivista ha testimoniato della numerosa letteratura critica che drammaticamente si è interrogata in questi anni sui possibili esiti che una trasformazione così radicale avrebbe prodotto, non solo per il mondo della scuola e dell’università ma, più in generale, per la cultura del Paese3.
La posta in gioco era, ed è ancora di più oggi, molto alta: si tratta infatti di mutare radicalmente il modo di concepire il sapere e la conoscenza; ed è doveroso interrogarsi su quanto tali trasformazioni siano in grado di incidere sulle conquiste e i dibattiti culturali che condizionano la società nel suo complesso, oltre che sulla crescita civile e politica dell’opinione pubblica. Domande drammatiche, soprattutto quando si considera come la nuova impostazione intellettuale alla base di questo progetto di riforma abbia scientemente delegittimato la tradizione di ricerca fondata sullo storicismo, spesso dipinta in modo caricaturale, e della quale si disconoscono –ma in modo ancor più sprezzante si ignorano- i grandi contributi alla scienza pedagogica e della formazione4. Si può essere più o meno d’accordo con questa valutazione, ma è indubbio che in questi anni si sia perseguito un disegno coerente, che aveva una sua evidente fondazione teorica, e che è stato sostenuto e portato avanti con determinazione, dalla classe politica e da un ceto intellettuale –quello dei pedagogisti- che, indifferente alle contestazioni incontrate dalle loro teorie in ambito sia nazionale sia internazionale, si è attribuito un ruolo di guida esclusivo in merito alla politica educativa.
È bene ha fatto Albero Asor Rosa5 a sottolineare il rischio che un importante patrimonio della cultura nazionale venga cancellato, sostituito da modelli passivamente importati da altre esperienze culturali.
La finalità del presente testo non è quella di riproporre una valutazione critica della «didattica per competenze», che pure non ha perduto né di efficacia né di attualità. Se però prima l’urgenza era quella di invitare responsabilmente a una riflessione e a una cautela prima di procedere a uno smantellamento di una così importante tradizione educativa6, con l’approvazione della Legge 107 quei mutamenti sono diventati realtà. L’obiettivo primario della cosiddetta “Buona Scuola”, e che i documenti attuativi si propongono di realizzare, più che su determinati contenuti specifici, era quello di imporre finalmente una didattica non più fondata sulle discipline, costringendo gli insegnanti a ripensare (con mezzi persuasivi ma anche coercitivi7) tutta la loro preparazione professionale. Matteo Renzi era stato chiaro, quando la protesta veemente della classe docente aveva messo in difficoltà l’esecutivo, e le forze sindacali lo consigliavano sì di assumere i docenti precari, come esigeva la sentenza della Corte europea, ma di rimandare le decisioni in merito alle trasformazioni strutturali dell’insegnamento, in modo da far sì che la riforma fosse l’esito di un confronto più allargato e consapevole. Niente da fare. I nuovi docenti potevano essere inseriti solo in una scuola che avesse mutato radicalmente la pratica della didattica, oltre ai criteri di selezione e di formazione del personale docente. Era chiaro che si voleva imporre, attraverso il carattere stringente della norma, le metodologia della “didattica delle competenze”.


La resistenza (passiva) degli insegnanti

Il fatto che questo controverso concetto, le «competenze», che negli anni non è certo giunto a maggiore chiarezza8, sia un contenuto di legge, ha ovviamente messo in difficoltà gli insegnanti; di fronte alla vaghezza di tale obiettivo della valutazione, essi non hanno potuto fare altro, nei casi più improbabili, che applicare il lessico della nuova concezione pedagogica alle consuete pratiche d’insegnamento. Il governo, per ora solo nella scuola primaria e in quella secondaria di primo grado, ha stilato un elenco di competenze fondamentali che il docente, alla fine di ogni anno e a conclusione del ciclo, deve verificare e certificare per ogni alunno9. Al di là delle «competenze disciplinari», da sempre al centro dell’attività docente, anche se chiamate in altro modo, compaiono dizioni quanto meno sorprendenti, quali le «competenze imprenditoriali», da verificare già in un ragazzino della scuola media inferiore10. Gli insegnanti se la cavano come possono, spesso aiutati dai libri di testo, i quali ormai impiegano parte del loro apparato di esercizi per agevolare il docente a individuare queste competenze attraverso discutibili tipologie di verifica11.
Prima però di approfondire quest’ultimo punto, conviene proporre una precisazione di carattere generale, di cui l’esempio sopra riportato è una lampante dimostrazione. A “Buona Scuola” ormai avviata, la concreta attività didattica si svolge in una specie di “interregno”, in cui molti docenti, ormai sfiduciati sulla possibilità che il loro dissenso possa conoscere una concreta prospettiva politica e venga riconosciuto quale punto di vista intellettuale da tenere in debita considerazione da parte delle autorità ministeriali, tendono a proporre una resistenza passiva attraverso la quale, da una parte, accolgono formalmente le procedure e le metodologie relative alle competenze, e dall’altra cercano di procedere nel modo tradizionale, nella convinzione che solo in questo modo si dà un concreto contributo all’emancipazione intellettuale degli allievi.
Una situazione di fatto volutamente ignorata dai documenti del MIUR; i quali, senza tenere in alcun conto le numerose prese di posizione critiche, parlano di consenso e di entusiastica condivisione delle nuove pratiche. In realtà i dati presentati sono quasi sempre parziali e tutti da verificare12. Un’abitudine non nuova da parte degli “innovatori progressisti” che, a fronte della provvisorietà dei dati a disposizione, propongono conclusioni apodittiche, verso le quali sarebbe inutile qualsiasi argomentazione critica. Su tali dati sarebbe auspicabile un lavoro indipendente particolarmente attento: il fatto che gli insegnanti applichino quanto previsto dalla legge (per quanto riguarda i corsi d’aggiornamento obbligatori, l’adesione ai test INVALSI, l’Alternanza scuola lavoro, ecc.), non significa che ne condividano i contenuti; spesso i docenti utilizzano strategie che depotenziano la deriva riduzionista e semplificatrice che l’adozione di tali pratiche comporta, nella consapevolezza che solo un’approfondita e consapevole didattica disciplinare sia occasione di crescita formativa significativa per gli studenti. L’incarico di “animatore digitale”, ad esempio, se è stato concepito dal legislatore quale figura che deve guidare l’intero collegio docenti verso l’adozione di una digitalizzazione integrale della didattica (attraverso percorsi di formazione o concreti laboratori), viene da molti colleghi concepita come figura di difesa da questa pressante invasività, cercando invece di incoraggiare l’uso degli strumenti digitali quale possibile mezzo della trasmissione didattica, utilizzato sulla base di una libera e ponderata scelta del docente , quale mezzo più adatto per trasmettere la conoscenza, e non invece quale paradigma esso stesso di una nuova creatività comunicativa, destinata invero a semplificare intollerabilmente e a banalizzare –in particolare nella scuola secondaria superiore- i contenuti studiati13.



Un intollerabile ostacolo: la libertà d’insegnamento

L’esecutivo trae forza dal fatto che ormai le nuove pratiche didattiche siano stabilite dalla legge; è lecito dubitare che esse siano coerenti con la libertà d’insegnamento riconosciuta dall’art. 33 della Costituzione. La libertà d’insegnamento non riguarda evidentemente solo i contenuti, bensì soprattutto la metodologia scelta dal docente. E diventa grave quando se ne intende imporre una, che obbliga l’insegnante a rimettere in discussione il proprio intero bagaglio professionale, nonostante essa non goda affatto di un consenso unanime né da parte dei lavoratori che dovrebbero applicarla né da parte di numerose personalità intellettuali esperte. In questo caso la contraddizione con il principio costituzionale appare in tutta la sua evidenza.
Eppure le prese di posizione dei diversi documenti ministeriali parlano chiaro: se solo si prende come esempio ancora il testo dedicato al rilancio della scuola digitale, vi si afferma con chiarezza la necessità di un approccio alla didattica, di carattere ingegneristico, da «fare accadere in ogni classe»14. Una delle finalità del documento sembra proprio quella di porre termine alla pluralità di metodologie impiegate ancora dagli insegnanti, non certo coincidenti con quelle auspicate dal testo, rivendicando invece a queste ultime una patente di scientificità che si contrapporrebbe allo spontaneismo ed empirismo metodologico utilizzato fino ad ora nelle nostre scuole.
Di fronte a tale difficoltà il ministero, ma soprattutto gli esperti o consiglieri che lo affiancano15, da tempo adottano una strategia comunicativa molto ben studiata, il cui carattere capzioso non dovrebbe sfuggire però a lavoratori intellettuali quali sono gli insegnanti. Anche se, probabilmente, non sono loro i veri interlocutori cui queste dichiarazioni si rivolgono: certo, a coloro che accettano di farsi avanguardia di queste discusse sperimentazioni vengono adombrati indubbi vantaggi, da ruoli di vertice nella gerarchia interna dei vari istituti, a conseguenti benefici di carattere stipendiale. In realtà questi documenti, attraverso un abile retorica mascherata da un linguaggio apparentemente scientifico-formalizzante, mirano a convincere altri interlocutori, esterni alla scuola: non tanto le famiglie o gli studenti, bensì operatori professionali, destinati a formare e in alcuni casi a sostituire gli stessi insegnanti. A loro si vorrebbero consegnare di fatto le maggiori responsabilità in ambito educativo16.
Per giustificare tale pretesa si ricorre, come già ricordato, a una presunta rivoluzione scientifica che si vuole realizzata da parte di una psicologia e pedagogia di impostazione cognitivista. È chiaro qual è il fine perseguito da una simile argomentazione: il richiamo alla validazione scientifica, che renderebbe obbligata la transizione intermodale verso l’«innovazione», ha lo scopo di scongiurare qualsiasi obiezione o approccio critico. Si tratta di una strategia argomentativa, non nuova nei testi ministeriali, che apre preoccupanti scenari speculativi, e che dovrebbe sollevare un dibattito non trascurabile negli ambienti della ricerca scientifica, per confrontarsi con gruppi di ricerca che pretendono di rappresentare un “metodo scientifico” le cui falle e contraddizioni risultano invece facilmente smascherabili17.



Formazione/aggiornamento o umiliazione del docente?

Quanto più le basi della nuova didattica si dimostrano precarie, tanto più esse sono argomentate e imposte con protervia nei documenti ministeriali. Da sconfiggere risulta soprattutto la resistenza (consapevole o passiva che sia) da parte degli insegnanti, In coerenza con un assunto teorico continuamente ribadito in questi anni: i docenti, dalla scuola primaria alla secondaria superiore, non sono più considerati depositari di positive capacità professionali, sulle quali la comunità deve investire per la formazione culturale e civile delle nuove generazioni; bensì lavoratori la cui preparazione risulta ormai inadeguata rispetto alle grandiose trasformazioni epocali verificatesi negli ultimi decenni. Essi devono dunque accettare il principio di dover rimettere totalmente in discussione la propria professionalità18. Ovvero, sottoponendosi a continui corsi di aggiornamento e di formazione, gestiti da professionisti esterni al mondo della scuola i quali, più capaci di cogliere le necessità cognitive richieste dalla nuova fase storica, hanno il compito di ripensare le modalità d’insegnamento piegando a queste l’autonomia decisionale (rispetto ai metodi adottati e ai contenuti scelti) che ancora la Costituzione riconosce a chi si dedica alla trasmissione del sapere. Questi nuovi corsi d’aggiornamento non sono frequentati per approfondire secondo una libera scelta argomenti e temi relativi alla specificità della disciplina insegnata, bensì per piegarla e mortificarla rispetto alle nuove metodologie previste. Non è un caso che, tra gli ambiti indicati per la formazione obbligatoria dei docenti, non ne è previsto alcuno dedicato alle diverse discipline19, che rimangono comunque accessorie rispetto ad altre priorità. Tali corsi vengono concepiti e organizzati da quella che viene chiamata “scuola polo”, all’interno dell’ambito territoriale20 di competenza, e il docente in tre anni dovrà dimostrare, attraverso un proprio portfolio elettronico, di avere frequentato corsi relativi a tutti gli ambiti richiesti; e su questa documentazione si fonderanno i criteri per cui potrà essere scelto da un Dirigente in coerenza con il piano formativo dalla scuola. E i contenuti di questi corsi, oltre a ribadire l’irrilevanza delle discipline, subordinate a sempre più radicali estremismi metodologici, risultano francamente imbarazzanti, a chi conserva ancora un minimo di sensibilità intellettuale21.
Un’ulteriore dimostrazione di quanto la tradizionale e per noi ancora attuale figura dell’insegnante, esperto di una disciplina nonché della didattica per insegnarla, non sia prevista nella nuova scuola, si evince da un’interessante affermazione contenuta nel recente documento, da noi già più volte citato, pubblicato dal MIUR, dedicato al rilancio della scuola digitale22.
Vi compare una frase sibillina, presentata in modo cortese, ma che dovrebbe preoccupare qualsiasi docente: «ma è ora di pensare a ciò che la Scuola deve chiedere al Paese»23. Si riconosce, apparentemente, agli insegnanti la possibilità di pretendere qualcosa, anche se sarebbe meglio che a formulare le richieste fossero essi stessi e non gli estensori del documento. E che cosa mai sarà questa concessione, questo diritto degli insegnanti finalmente di pretendere, nella consapevolezza che la scuola e la cultura degli alunni la portano avanti soprattutto loro? Quella – ed è per questo che non ci sembra esagerato parlare di «umiliazione» dei docenti24- di poter chiedere per loro i «migliori formatori». Ovvero, riconoscere la loro inadeguatezza, ammettere con umiltà di doversi riformare completamente e accettare di lasciarsi “accompagnare”25 docilmente nella loro attività quotidiana.



Finanziamenti improduttivi

Nonostante l’applicazione del concetto di «competenza» alla pratica didattica susciti un contrasto d’opinioni tra gli studiosi certo non ancora risolto26, l’esecutivo, forse proprio per dare una mano a dissipare tale confusione, ha intenzione di spendere diversi milioni di euro per finanziare ben 18 centri di competenze sui vari temi, fra cui emerge la centralità del “pensiero computazionale”27. Dal 15 settembre, in particolare, inizierà a lavorare un gruppo di lavoro proprio sulle «competenze digitali». Tra i suoi scopi c’è quello di promuovere l’utilizzo di smartphone o tablet in classe (il cosiddetto BYOD, bring your own device), e, più in generale e più minacciosamente, l’innovazione metodologica della didattica. L’uso dello smartphone28, la digitalizzazione dell’insegnamento, il pensiero computazionale non diventano possibili opzioni, metodologie eventualmente scelte dall’insegnante se ritenute più opportune, in base ai contenuti da trattare e al contesto-classe. Diventano le competenze di base della nuova professionalità docente, ineludibili e da applicarsi obbligatoriamente (“il punto è far succedere tutto questo in ogni classe”29). Si capisce allora che cosa intendeva la ministra Fedeli, quando ha negato che l’insegnamento fosse una missione, bensì una serie di competenze tecniche da applicare30. E cosa può derivarne in merito alla sicurezza del “posto di lavoro” per ogni insegnante31. Il “pensiero computazionale”32, nonché quello “analitico”33 diventerebbero non un approccio possibile ad alcune discipline o argomenti, ma addirittura l’oggetto di un «esclusivo curricolo verticale dalle elementari alle superiori», nella volontà di impostare fin dalla base un modo di ragionare tecnicistico e strettamente sequenziale, delimitato nelle possibili variabili, in un contesto di calcolo di vincoli, risorse e obiettivi.



L’«autentico», l’indeterminazione travestita da individualizzazione

Abbiamo prima accennato a due concetti oggi molto in voga in ambito pedagogistico, quelli di «compito autentico» e di «valutazione autentica». Si tratta di concetti dotati di un efficace dispositivo comunicativo, ma in realtà estremamente deboli sul piano teoretico, come è facile ricavare dalle loro concrete applicazioni. E tuttavia, non solo essi diventano principi in qualche modo obbliganti per tutti i docenti (ai quali si dedicano continui corsi di aggiornamento), ma sono ormai parte integrante dei programmi di concorso. Non si potrà più diventare insegnanti se non si conosceranno queste discutibili nozioni e, soprattutto, se non si dimostrerà di applicarle concretamente in classe34.
Concetti fumosi e tutt’altro che condivisi diventano così oggetto delle prove di concorso, con l’obbligo di un’unica risposta possibile, quasi si trattasse di un quesito matematico, laddove sulla legittimità di tali concetti è in corso una vivace discussione intellettuale, che potrebbe giustificare anche un motivato dissenso35. Il risultato è che buona parte del personale neo assunto presenta ormai un’idea dell’insegnamento totalmente estranea a quella dei colleghi più esperti. Ragion per cui nelle scuole si è creato un personale ormai orientato alle nuove pratiche destinato a scalzare chi persistesse nella vecchia didattica, attraverso lo strumento della chiamata diretta, ovvero la facoltà del DS di scegliere nominativamente l’insegnante della propria scuola, in base a caratteristiche che devono fare riferimento alla didattica “auspicata” dalla nuova legge36.
Il compito autentico è stato così chiamato non solo per la consueta retorica volta ad accreditare quale concetto scientifico una pratica tutt’altro che condivisa, ma perché sarebbe in grado di eliminare il residuo di discrezionalità inevitabilmente presente all’atto della valutazione. Nello stesso tempo, esso pretende di individualizzare al massimo la stessa valutazione, fornendo un ritratto intellettuale dell’allievo perfettamente coincidente con la sua identità psicologica e cognitiva, di fotografarlo nell’unicità del suo percorso di crescita intellettuale.
Un criterio di effettuazione delle verifiche e di conseguente valutazione che consentirebbe da una parte di verificare le competenze, dall’altra di creare motivazione nell’alunno mostrandogli la relazione tra i contenuti studiati e il proprio vissuto.
Come spesso accade nelle nuove proposte pedagogiche, la pretesa novità del metodo gioca su un equivoco. Ovvero su un elemento da sempre presente nell’attività docente, implicito nella pratica didattica, ma che viene presentato quale esito di scoperta recente. La valutazione, anche quando tratta esclusivamente di contenuti curricolari (come dovrebbe fare), e persino quando è obbligata da parametri certi in prove oggettive, è in realtà sempre individuale. Innanzitutto perché la valutazione non è un momento successivo alla comunicazione didattica, con cui freddamente se ne traggono i risultati, ma è parte di essa, ovvero è una momento non necessariamente conclusivo della relazione educativa. Ne consegue, allora, che il risultato della prova deve essere sempre valutato dal docente non solo in sé (come conseguimento di un risultato di sapere oggettivo), bensì come interno a un processo di crescita personale che l’insegnante segue con continuità per alcuni anni e che, anche se il voto compare come indicazione numerica determinata, va sempre interpretato alla luce del processo di percorso individuale.
Tale percorso seguito dal docente, comunque su identici contenuti disciplinari, si interroga su come motivare allo studio e favorire l’evoluzione del bagaglio conoscitivo dello studente – con tutto ciò che ne consegue per quanto riguarda l’acquisizione di capacità cognitive e critiche –, e come migliorarne individualmente la motivazione e la comprensione. Un criterio di comunicazione per buona parte differente da quello universitario, dove la relazione docente- studente, svincolata dal gruppo classe che prosegue identico per un percorso pluriennale, non può prevedere una relazione personale così stringente. Non si vuole mettere in discussione il fatto, da sempre risaputo (persino nella così bistrattata epoca gentiliana), che il fine della scuola pre universitaria sia soprattutto formativo, in quanto intende «consentire ai giovani di sviluppare i valori, le capacità e le conoscenze necessarie per entrare nella vita adulta da cittadini critici in grado di mettere in dubbio il senso comune, la cultura ufficiale, l’opinione pubblica e i media dominanti», con l’obiettivo di «rendere gli studenti capaci sia di dare forma sia si ampliare le istituzioni democratiche»37; quello che si intende sostenere è il principio che tale finalità formativa può essere realizzata solo attraverso – e non indipendentemente – le discipline e i loro contenuti, con conoscenze concrete che cambiano l’identità di chi le riceve38 e non con vuote metodologie e schemi procedurali39.
Ovviamente, affinché la valutazione così intesa possa essere valorizzata, deve trovare un irrinunciabile completamento nella «didattica di recupero»; momento in cui si lavora insieme all’allievo proprio per confrontarsi sulle difficoltà cognitive e dove la relazione raggiunge il massimo dell’individualità, all’interno però di riferimenti comuni e di una dinamica che è quella di un gruppo di lavoro solidale, ovvero la classe. Lo sottolineiamo perché una autentica didattica di recupero rimane lo strumento più efficace per prevenire i fallimenti. Ma essa dovrebbe occupare –questo sarebbe il senso vero di una scuola aperta ben oltre l’orario curricolare- un’organizzazione capillare pari a quella dell’orario antimeridiano, e prevedere un personale parallelo a quello di diritto e con esso collaborativo. E ciò che viene organizzato in modelli europei spesso presi a modello, ma non certo per tale pratica. Si è decisa invece la scorciatoia della semplificazione o della riduzione dei contenuti, senza domandarsi le conseguenze di lungo periodo di una tale scelta. Soprattutto se si verificano le reali opportunità offerte dal nostro sistema educativo laddove esso riesce a conseguire i suoi successi migliori, a testimonianza di un modello che continua a funzionare efficacemente anche nel nuovo contesto globale.
La vera finalità dell’introduzione del concetto di autentico in due momenti cruciali della vita scolastica (la verifica e la valutazione) corrisponde a tale volontà di semplificazione dei contenuti, a questa facile scorciatoia dalle conseguenze non ben ponderate. Con l’autenticità, questo è chiaro, verrebbe meno, o comunque sarebbe svalutato, qualsiasi parametro oggettivo-disciplinare. Il risultato, commisurato al percorso dell’alunno, prevedendo una preponderante considerazione dei fattori soggettivi, sarebbe sempre positivo, con il rischio di non saper suscitare più motivazione: da una parte perché diminuirebbe il senso di responsabilità negli allievi, che considerano spesso sufficiente a misura di se stessi il tempo di studio impegnato; dall’altra perché non stimola quella curiosità verso il sapere che solo la relazione con il non conosciuto, con il non noto (va da sé, esposto con convinzione e partecipazione comunicativa, con chiarezza e capacità di coinvolgimento) può realizzare.
Per valutare la forza di queste ultime affermazioni, che possono sembrare estreme o esagerate, bisogna approfondire il concetto di compito autentico, ovvero della nuova modalità di verifica che, secondo la presuntuosa opinione dei suoi teorici, darebbe un quadro della capacità dell’alunno superiore a quello di un compito tradizionale. In uno studio da noi già richiamato, si precisa questa utile caratteristica della “valutazione autentica”40: «tiene conto delle differenze individuali tra gli studenti che non derivano da scarso impegno personale». Nel testo vengono poi riportati alcuni esempi, riferiti a un compito di storia dell’arte, dedicati all’arte etrusca e, in particolare, al “sarcofago degli sposi”: «Che rapporto hanno gli etruschi con la morte e come viene affrontato il tema della morte nella realtà contemporanea?», oppure: «Delinea il rapporto tra uomo e donna al tempo degli etruschi. Come lo puoi paragonare alla realtà attuale?», e ancora: «Gli etruschi erano un popolo pacifico? Quale valore può avere al giorno d’oggi essere un popolo pacifico?». Queste domande, che ci sembrano poco originali, verrebbero concepite nientemeno che «avendo a portata di mano sia le competenze europee che la lista delle competenze storiche da sviluppare». L’impressione è quella di un artificioso accostamento passato-presente scarsamente significativo.
L’autenticità, dunque, consisterebbe nel mettere in relazione qualsiasi contenuti disciplinare con il vissuto dell’alunno, con la contemporaneità, nell’indifferenza della complessità di questa relazione, che deve essere sì approfondita in classe, ma a nostro parere più nella fase espositiva che in quella valutativa. Secondo questa paradossale teoria, si potrebbero così scoprire le reali “competenze” dello studente; non tanto la precisione delle conoscenze, la pedanteria del nozionismo, ma la libertà di un’intelligenza che con fantasia individua una relazione significativa tra quanto sommariamente ricordato e se stessi, dimostrando di saper immediatamente produrre quella traduzione, in realtà fumosa, tra il pensiero e la pratica.
Quando poi si andasse a verificare il risultato di tale prassi, ci si troverebbe di fronte a una fiera delle banalità. È storia in verità già vecchia, cui ci eravamo in passato già soffermati, facendo riferimento sia ad esempi specifici41, sia al fallimento motivazionale, fondato sull’ingenua credenza che l’alunno tanto più si entusiasma al sapere quanto più parla di sé 42. Laddove la motivazione avviene proprio con la scoperta del nuovo, con la conoscenza dell’altro da sé, con l’apertura di prospettive altre che non si possono intuire sempre nel proprio contesto sociale o familiare.
Risulta evidente, allora, il motivo per cuiquesta riduzione del sapere a se stessi, questo narcisismo cognitivo, implichi la distruzione della didattica disciplinare.



Al posto degli insegnanti….

In questa nuova scuola gli insegnanti diventano inutili. Per istruire gli allievi sulle nozioni essenziali,è sufficiente il variegato materiale presente in rete. Essi devono rassegnarsi ad essere consapevoli operatori43 dal momento che non possono offrire nulla di più dell’attraente materiale disponibile in internet44. Una totale rinuncia alle potenzialità comunicative della relazione diretta, continuata e personale, legata al contempo a uno specifico disciplinare; per una soggettività che si avvicina per la prima volta a una disciplina, diventa importante poterla identificare con unaindividualità con cui si è in relazione costante, cogliere quanto quei contenuti disciplinari abbiano costituito l’identità intellettuale e psicologica che ci si trova di fronte, come il sapere sia vita che costruisce una coscienza di sé, un non saputo che, conosciuto, cambia le tue prospettive e la tua capacità di giudicare il mondo. Nel nuovo modello prospettato dai pedagogisti il docente rimane un comunicatore nel senso però di intrattenitore La comunicazione è sempre presente, ma assume carattere ludico; il professionista si trasforma in organizzatore di laboratori, distaccato dalla disciplina d’insegnamento, la cui comunicazione è affidata a un altro strumento45. Agli insegnanti è richiesto di «attuare semplicemente procedure didattiche predeterminate e standardizzare i contenuti e, nella peggiore delle ipotesi, “sospendere” le loro capacità immaginative durante il prezioso tempo trascorso in classe per insegnare agli studenti come sostenere un test»46.
Tutto ciò, ci viene detto, è il mondo del lavoro e dell’economia a pretenderlo47; ovvero quell’ambiente di attività e sapere da cui dipende la possibilità peri giovani di incontrare la sicurezza nella vita futura. La cultura, il sapere che è al di fuori di un immediato ambito di applicabilità, è un lusso che non ci si può permettere48. Nel documento sul rilancio della scuola digitale si parla proprio, relativamente ai compiti della scuola, di «ciò che il Paese chiede alla scuola»49. Personale da inserire immediatamente nel ciclo economico, in virtù di abilità guadagnate che si traducono in capacità di essere utili alla crescita economica e quindi in prospettive occupazionali.
Una visione utopica assolutamente irrealistica, per motivi tanto banali, e più volte ribaditi in più sedi, che emergono con evidenza: l’obsolescenza continua del sapere pratico, soggetto a repentina innovazione decisamente più veloce dei tempi dell’apprendimento; e una difficoltà dei diplomati e laureati a trovare occupazione che non dipende dai limiti della scuola, ma da un Paese strutturalmente in difficoltà che non è capace di offrire prospettive ai suoi giovani, pur in possesso di un sapere qualificato.
Eppure questo giustificherebbe l’affidamento delle decisioni più importanti sulla scuola a soggetti esterni: agenzie educative, considerate più in linea con le nuove prospettive metodologiche. I rappresentanti dell’imprenditorialità, che avrebbero più autorità nello stabilire dall’esterno i bisogni della società che la scuola dovrebbe soddisfare. L’iniziativa in questo senso è particolarmente audace.Federico Visentin, vice Presidente di Federmeccanica, in un’intervista ha affermato la necessità di ripensare totalmente la didattica alla luce delle esigenze delle aziende. Si legge fra l’altro: «La “Buona Scuola” del futuro, quella dove istituzioni formative e imprese sono partner, non potrà prevedere l’identificazione della didattica con le sole materie, il nozionismo, la considerazione della classe come un unicum inscindibile, ma piuttosto l’interdisciplinarietà, la flessibilità applicata ai programmi e agli orari didattici». Sul modo di intendere la partnership tra impresa e istituti formativi, leggere più avanti: «Con la riforma “La Buona Scuola” viene riconosciuto il ruolo formativo dell’azienda, che dovrà partecipare a tutte le fasi del percorso formativo: progettazione delle competenze, formazione on the job, valutazione»50.
Un atteggiamento miope in fondo da parte degli stessi rappresentanti degli imprenditori, che, non comprendendo il regresso intellettuale dovuto a una semplificazione così drastica dei saperi, si ritroveranno certo di fronte una manodopera docile facilmente manipolabile, ma poco capace di inserirsi in contesti innovativi, e soprattutto di sollecitarli.
Questo l’esito di una scolarizzazione «sprezzantemente anti-pedagogica e violentemente anti-critica», il cui proposito è proprio quello di «fare a meno della ricerca critica, surrogandola attraverso la fornitura di comodi “prepensati”»51.









NOTE
1 Cfr. G. Carosotti, La falsa alternativa: Berlinguer, Moratti e il destino del Liceo europeo, in ”l’Acropoli” Anno V – n. 6, novembre 2004, pp. 611 sgg.^
2 Cfr. Idem, La didattica delle competenze, in “l’Acropoli” Anno XI – n. 6, novembre 2010, pp. 631 sgg.; Id., La Buona Scuola è quella italiana?, in “l’Acropoli”, Anno XVI – n. 3, maggio 2015, pp. 216 sgg.^
3 In particolare, si sono discussi i lavori di A. Scotto di Luzio (in “l’Acropoli”, Anno X – n. 3, maggio 2009, pp. 306 sgg.; e Anno XVII n. 3, maggio 2016, pp. 318 sgg.) e di G. Ferroni (in”l’Acropoli”, Anno XVI – n. 6, novembre 2015, pp. 636 sgg.).^
4 Cfr. F. Germinario, Un mondo senza storia? La falsa utopia della società della poststoria, Asterios, Trento 2017, p. 31: «Questa lobby [i “didatticisti” n.d.a.] ha saputo imporre, nel volgere di poco più di un ventennio, la teoria per cui bisognava ridefinire la didattica, abbandonando finalmente il terreno della conoscenza, evidentemente espressione della tradizione idealistica nazionale».^
5 Cfr. A. Asor Rosa, La scuola nelle mani dei barbari, in “la Repubblica”, 26 agosto 2017: «In Europa ci sono situazioni diverse, e in ogni caso il puro “allineamento", come dice la parola stessa, sarebbe destinato a rappresentare una pericolosa frattura con bisogni e tradizioni della cultura italiana, sia scientifica sia umanistica». Peraltro l’intervento manifesta anche dei limiti, come spesso accade quando accademici intervengono a proposito della scuola; ovvero non colgono come centrale il problema della “didattica delle competenze”, alla base di qualsiasi polemica relativa al processo di deculturizzazione degli alunni. In questo senso la ministra Fedeli ha avuto buon gioco a depotenziare l’effetto del documento, firmati da seicento docenti universitari, sulla precaria capacità linguistica di molti studenti italiani, a conclusione della scuola secondaria superiore.^
6 Cfr. I. Diamanti, Ragazzi non tornate, in” la Repubblica” 4 settembre 2017: «Tuttavia, il sistema scolastico superiore e le Università, in Italia, dispongono di un credito molto elevato, fra i cittadini e gli studenti. Ma anche presso le istituzioni europee. I dati dell’Ocse, infatti, rilevano che la scuola italiana è ancora uno strumento di rimozione degli “ostacoli di ordine economico e sociale". Per altro verso, i nostri laureati e i nostri ricercatori trovano spazio e vengono valorizzati, altrove. Mentre in Italia si devono rassegnare a condizioni di sotto occupazione. Con prevedibili e inevitabili conseguenze di dequalificazione. Così, per noi si tratta di una perdita “economica". Di un investimento in-utilizzato». Dal che si deduce che non è il modello in sé a essere sbagliato, ma vi sono altri contesti che ne impoveriscono i pur positivi effetti.^
7 Ci riferiamo alla nuova modalità di reperimento dell’organico da parte delle scuole, introdotto dalla Legge 107 e noto come “chiamata diretta”, sul quale torneremo più avanti.^
8 Sullo statuto epistemologico e sul ruolo che le competenze assumono nella narrazione scolastica della Buona Scuola è stato scritto ampiamente. A titolo di esempio si vedano, oltre ai contributi su “l’Acropoli” citati alla nota 2: A. del Rey, “À l’ecole des competences”, Ed. La decouverte, Paris, 2013; E. Greblo, La fabbrica delle competenze e B. Bonato, Senso e non senso della competizione, entrambi in La scuola impossibile, in “Aut Aut” nr. 358, 2013.^
9 Le schede per la certificazione delle competenze al termine della scuola primaria e del primo ciclo sono scaricabili al seguente link: http://www.istruzione.it/comunicati/focus170215.html^
10 A sottolineare il carattere estremista e poco meditato di una simile indicazione basti la lapidaria battuta in proposito di Mario Perugini, docente di storia economica all’Università Bocconi. Si trova al seguente link (https://www.youtube.com/watch?v=AoXcbAQtLXE), al minuto 1’ 16’’ 50.^
11 Sui concetti di “compito autentico” e “valutazione autentica” torneremo alla fine del saggio.^
12 Un esempio è il nuovo documento dedicato al “rilancio della scuola digitale (https://www.agendadigitale.eu/scuola-digitale/miur-rilancio-e-prossimi-passi-del-piano-scuoladigitale-insieme-al-paese/) sul quale torneremo fra poco. Recentemente sulla questioni dei dati si è registrata un significativo scambio di opinioni tra G.Ferrer Esteban (Fondazione Agnelli) e D.Polandri (INVALSI) con R.Latempa e chi scrive a proposito dell’utilizzo di dati più o meno approssimativi. La replica e la contro replica si possono leggere al seguente link: https://www.roars.it/online/ancora-sul-modello-insegnante-una-replica-da-invalsi-e-fondazione-agnelli/^
13 Cfr. I. Cervesato, Delle superiori quadriennali, http://www.edscuola.eu/wordpress/?p=94233: «Sottolineo: non si tratta di una posizione che colloca lo strumento al livello che gli compete, quello appunto di attrezzo da usare con buon senso, quando e se ritenuto utile (eventualmente, dunque, anche da non usare per nulla). Quello di mezzo per raggiungere un fine. No, mi riferisco qui ad una posizione radicale, largamente diffusa, che attribuisce alla tecnologia didattica un ruolo essenziale nei processi di apprendimento, con ciò prefigurando un vero e proprio rovesciamento mezzi-fini. In questo caso, come per la didattica laboratoriale, l’uso delle nuove tecnologie didattiche assume una centralità ed un’essenzialità del tutto nuove e, per così dire, spinte all’ennesima potenza: se è vero che esso viene dichiaratamente inteso come strumento capace di comprimere tanto efficacemente i tempi di apprendimento, da rendere possibile l’eliminazione indolore di un anno di corso»; e F.Germinario, cit., p.41: «Ciò che non si intende riconoscere è che, in ambito formativo, la rete è utilizzata quale scorciatoia per ridurre, se non eliminare seccamente, il tempo dedicato allo studio; nel senso comune, insomma, la rete è vista come lo strumento più utile per sopprimere il lavoro intellettuale».^
14 Cfr. https://www.agendadigitale.eu/scuola-digitale/miur-rilancio-e-prossimi-passi-del-pianoscuola-digitale-insieme-al-paese/, paragrafo 6: «il punto è far succedere questo in ogni classe».^
15 Sulla selezione di tali esperti si può consultare il seguente link: http://docplayer.it/271107-L-illusione-di-far-bene.html^
16 Sull’identità di queste autorità esterne alla scuola torneremo alla fine dello scritto.^
17 Questa letteratura, infatti, sostiene l’assolutezza dei propri assunti sulla base di argomentazioni tutt’altro che rigorose, bensì autoreferenziali e chiuse ai contraddittori. Nel volumetto di M. Maglioni e F. Biscaro La classe capovolta, Erikson edizioni, Trento 2014, si afferma costantemente, riferendosi alle innovazioni didattiche, di risultati raggiunti «grazie alla ricerca pedagogica» (pag. 36), di approcci auspicati da decenni da tutto il mondo pedagogico» (pag. 49), di «basi teoriche del metodo» (pag. 66), di «anni di ricerche pedagogiche sulla didattica» (id.), facendo riferimento a teoria in verità frequentemente contestate. A tali contestazioni, peraltro, non si fa mai cenno. Già S. Tagliagambe e R. Campioni (Saper fare scuola. Il triangolo che non c’è, Einaudi, Torino 2008, pag. 216), poco meno di un decennio fa, parlavano di una «rivoluzione scientifica compiuta», di cui però la comunità scientifica nel suo complesso non sembra essersi accorta.^
18 Il titolo del convegno 2017 della Flipnet (Associazione per la promozione della didattica capovolta) è il seguente “Chi ama la scuola la ribalta”. Pur riconoscendo che si tratta di un gioco di parole con il nome dell’Associazione, non c’è dubbio che la stessa lavori per una radicale trasformazione della professione docente. http://flipnet.it/roma-20-ottobre-chi-ama-la-scuola-la-ribalta/^
19 https://www.roars.it/online/un-lucido-attacco-alla-liberta-dinsegnamento-sul-piano-diformazione-obbligatoria-dei-docenti-italiani/^
20 Con la Legge 107 i docenti con contratto a tempo indeterminato non hanno più la titolarità nella scuola dove lavorano (a eccezione dei docenti di ruolo prima dell’approvazione della Legge, che la mantengono fino a quando non chiedono trasferimento o si trovano ad essere in esubero nell’organico), bensì su un ambito territoriale piuttosto esteso, dal quale vengono scelti, per un incarico triennale, dai Dirigenti Scolastici che li scelgono a seconda dei loro curriculum e del progetto didattico dell’Istituto. All’interno di questo ambito, una scuola detta «polo» organizza i corsi di aggiornamento per tutto il personale docente.^
21 Proponiamo alcuni esempi; i corsi hanno tutti analoga impostazione metodologica. Come si vede, per il docente che volesse sfuggire alla logica delle competenze, non si propone alternativa: Italiano digitale. Sviluppare competenze di lingua italiana attraverso la didattica laboratoriale (le tematiche affrontate sarannowikiedi la twitteratura, ovvero la «rielaborazione e riedizione di opere della letteratura con i tweet»), Strategie educative innovative: flipped calssroom e peer-to-peer, La valutazione delle competenze, La didattica per competenze attraverso il curriculum verticale, Studiare con Wikipedia, Coding e pensiero computazionale, Innovare la scuola con i social (Facebook, Waht’s up, ecc.).^
22 Cit. alla nota 14.^
23 Ibid. Queste ultime considerazioni sono contenute alla fine del documento, nel paragrafo 7.^
24 Di «politica dell’umiliazione» nei confronti dei docenti e dell’intera istituzione scolastica ha parlato A.Giroux Education and the Crisis of Public Values: Challenging the Assault on Teachers, Students, and Public Education, Peter Lang Publishing, New York 2012; trad.it., Educazione e crisi dei valori pubblici. Le sfide per insegnanti, studenti ed educazione pubblica, ed. La Scuola,Brescia 2014.^
25 Nel Piano Nazionale della Scuola Digitale del 2015 (cfr. http://www.istruzione.it/scuola_digitale/allegati/Materiali/pnsd-layout-30.10-WEB.pdf), pag. 31, già si affermava: “Occorre quindi vincere la sfida dell’accompagnamento di tutti i docenti nei nuovi paradigmi metodologici. I contributi dei docenti più innovatori servono invece a creare gli standard attraverso cui organizzare la formazione e, attraverso risorse certe e importanti, renderla capillare su tutto il territorio”; per poi rivolgere un invito ai Dirigenti Scolastici a fare pressione sui loro docenti per adeguarsi alla nuova didattica: “Occorre infine riconoscere il ruolo di stimolo che deve essere proprio dei dirigenti scolastici e includere nelle azioni anche il resto del personale scolastico, troppo spesso non sufficientemente considerato nei piani di formazione […]” (ibid.)^
26 Si legga, ad esempio, in ambito internazionale, la posizione di P. Meirieu, coautore con B. Stiegler e D. Kambouchner del saggio “L’ecole, le numerique et la societé qui vient”, Ed Mille et une Nuits, Paris 2012, https://www.meirieu.com/ARTICLES/pedagogie_numerique.pdf, o il recente studio Educ Eval condotto dall’Università di Lille nelle scuole primarie della città di Bordeaux, sull’impiego di strumenti digitali e loro influenza in classe. L’analisi è stata diffusa nel Febbraio 2017 in un corposo rapporto disponibile sul sito http://www.cafepedagogique.net/lexpresso/Pages/2017/02/24022017Article636235179019856157.aspx^
27 Nel documento di rilancio della scuola digitale si parla di tre distinti piani d’investimento, per un totale di circa 25 milioni di euro.^
28 Cfr. http://www.tecnicadellascuola.it/item/31707-fedeli-uso-consapevole-dellosmartphone-in-linea-con-la-didattica.html. Notevole a questo proposito la riflessione di A.Scotto di Luzio, Smartphone. Il peggiore tradimento della scuola pubblica, in Il Sussidario.net: http://www.ilsussidiario.net/News/Educazione/2017/9/18/SCUOLA-Smartphone-il-classe-ilpeggiore-tradimento-della-scuola-pubblica/782892/.^
29 Cfr. nota 14.^
30 Cfr. il seguente link:http://www.orizzontescuola.it/fedeli-linsegnamento-professionenon-missione/: “Quella dell’insegnante è una delle professionalità più importanti per il paese, perché strettamente collegata alla suacrescita”.^
31 Cfr. il seguente link: http://www.tecnicadellascuola.it/item/32238-fedeli-basta-coidocenti-inamovibili-chi-non-e-in-grado-di-insegnare-va-stanato.html Bisognerà valutare se il giudizio di non idoneità di un docente sarà stabilito in relazione alle fantomatiche competenze fissate dai diciotto gruppi di lavoro.^
32 Sul pensiero computazione cfr. Giovanni Salmeri, Informatica o pensiero computazionale. Il futuro della scuola italiana in https://www.roars.it/online/informatica-o-pensierocomputazionale-il-futuro-della-scuola-italiana/; e anche in I.Cervesato, cit., pag. 13; ma segnaliamo anche un divertente ed estemporaneo giudizio in merito di Giulio Ferroni al seguente link (dal minuto 33’):https://www.youtube.com/watch?v=U_wPk2JmZx8. Cfr. anche F.Germinario, op.cit., pp.35-36: «nella didattica delle competenze l’allievo risulta espropriato di questa facoltà, perché il problema viene posto dall’alto, cioè dal docente, con la conseguenza che per ogni problema prospettato esiste una sola soluzione: gli allievi non risultano più suscitatori di domande, bensì risolutori di problemi posti da terzi».^
33 Si tratta di affermazioni impegnative sul piano epistemologico, in quanto, senza che nessuna comunità scientifica lo abbia avvalorato in modo unanime, rigettano come infondata tutta una tradizione pedagogica del nostro Paese ancora di grande valore e attualità, che non affatto impedito lo sviluppo della cultura e la conoscenza scientifica nel nostro paese.^
34 Nei corsi d’aggiornamento obbligatori, di cui alla nota 21, metà delle ore sono dedicate a laboratori pratici, in cui gli insegnanti devono dimostrare di applicare effettivamente in classe le nuove metodologie apprese.^
35 I recenti concorsi della scuola sono stati un evento particolarmente preoccupante, per i criteri scelti per selezionare i futuri docenti. Un numero di domande eccessivo per il tempo a disposizione, che permetteva solo qualche risposta breve e non meditata. L’obbligo di scrivere a computer ha reso la prova più una gara di dattilografia e di velocità sulla tastiera che di confronto sulla didattica disciplinare. Sull’assurdità di tale sistema si è espresso con motivata durezza Ernesto Galli della Loggia sul “Corriere della Sera” del 26 maggio 2016 (Concorsone, chi ha scritto quelle domande di storia). Per ognuna delle sei domande, che richiamavano tematiche di ordine generale, «si chiedeva nient’altro che «la definizione del problema, il percorso didattico, la bibliografica specifica sia storiografica sia riferita alle fonti (ma dov’è la differenza?), la filmografia», e, tanto per buona misura, anche l’indicazione delle appropriate gite scolastiche in relazione a ognuno dei temi suddetti. Il tutto, si badi, avendo complessivamente a disposizione un’ora e mezza: cioè un quarto d’ora per ogni domanda. Più che un esame un tentativo di decimazione, insomma: chi mai potrà aver corrisposto adeguatamente, infatti, a questo grottesco invito a redigere in novanta minuti l’enciclopedia della storia universale?». Peraltro lo storico denunciava un clamoroso errore nella terza domanda, dove si parlava di national building e non, correttamente, di nation building. Chi scrive ha potuto visionare copia di una prova di un collega respinto che aveva richiesto l’accesso agli atti, e in quel documento la domanda era stata corretta.^
36 La chiamata diretta obbliga il Dirigente Scolastico a scegliere il docente in base ad alcuni parametri non pertinenti con la materia insegnata. Per cui gli insegnanti sono selezionati non per quanto ne sanno delle rispettive discipline, ma sulla base di altri criteri, che vertono quasi tutti sulla disponibilità o capacità di praticare la “didattica innovativa”. Rimane facoltà dei Collegi dei Docenti di poter approvare i criteri dell’istituto, e molti hanno scelto quello del rispetto delle graduatorie.^
37 H. Giroux, op. cit. Cfr. anche R. Latempa, Di percorsi abbreviati, alunni competenti e insegnanti efficaci: cosa significa educare oggi, in https://www.roars.it/online/di-percorsi-abbreviatialunni-competenti-e-insegnanti-efficaci-cosa-significa-educare-oggi/: «Gli studenti, ancorché “apprendisti” devono essere “attrezzati” ad agire in base alle proprie idee, a contestare responsabilmente lo stato di cose, a saper intervenire sulla società per cambiarla, non per riprodurne logiche e dinamiche. L’educazione non è una questione individuale. La conoscenza nasce dalla “perturbazione” provocata dall’Altro (l’adulto, il Maestro) in un contesto collettivo (la classe) e sociale (il territorio). Non si apprende solo per lavorare. Si impara a diventare qualcos’altro».^
38 Cfr. S. Settis, La Buona scuola non è buona e le competenze non servono a niente, in http://www.linkiesta.it/it/article/2016/02/07/salvatore-settis-la-buona-scuola-non-e-buona-ele-competenze-non-servo/29179/.^
39 H. Giroux, op.cit., ha parlato, in proposito, di «vittoria dell’empirismo astratto sulla sostanza» e di «di riduzione della riforma dell’istruzione a gabbia metodologica». Cfr. anche F.Germinario, op. cit., pag. 42: «La necessità di contribuire a formare una coscienza civile è divenuto un obiettivo didattico, ancorché proclamato nei vari documenti programmatici, in ogni caso relegato in secondo piano, venendo al primo la questione delle metodologie: se tutto è ridotto a metodologia dell’insegnamento, la conoscenza diventa poco più che una fastidiosa appendice, in virtù che l’acquisizione del bagaglio di conoscenze non ricade nel momento della valutazione».^
40 M. Maglioni, F. Biscaro, op.cit., p. 45^
41 Cfr. G. Carosotti, La didattica delle competenze, cit.; in particolare una proposta di unità didattica su Dante sostenuta da F. Cambi, Saperi e competenze, Laterza, Bari 2004.^
42 Cfr. la critica di G. Ferroni, in La scuola sospesa: istruzione, cultura e illusioni della riforma, Einaudi, Torino 1997 pag.83, all’ingenuo ottimismo pedagogico della “didattica innovativa”.^
43 Cfr. M. Maglioni, F. Biscaro, op.cit., p. 37: «Gli studenti sono più motivati se chiamati a risolvere problemi, a sviluppare intuizione e a usare creatività e riflessione: tutte attività che richiedono la presenza di una guida al proprio fianco, ed è questo il nuovo ruolo del docente nella flipped classroom».^
44 Bisogna ricordare come questo pensiero sia stato sostenuto anche da Tullio De Mauro, nell’introduzione al volume di Maglioni e Biscaro, cit., p. 10: «È capitato a molti di sperimentare che è addirittura impietoso il confronto tra le lezioni frontali dell’anche più bravo professore che incontriamo nelle aule e che tratti una certa materia e buone trasmissioni divulgative del canale culturale europeo Arte o di Piero e Alberto Angela che trattino la stessa materia». Si tratta a nostro parere di un indebito confronto tra due esperienze incommensurabili.^
45 Secondo la metodologia della flipped classroom, l’allievo dovrebbe studiare in anticipo autonomamente i contenuti, utilizzando video disponibili su You Tube oppure prodotti dal suo stesso insegnante, possibilmente della durata non superiore ai quindici minuti. Il quale in classe, si limiterebbe a moderare un dibattito sui temi o ad approfondire questi argomenti.^
46 H. Giroux, op. cit.^
47 Si tratta di un’affermazione contenuta in modo ripetitivo nei diversi documenti ministeriali. Nel Piano Nazionale Scuola Digitale (cit., pag. 70), per esempio, si afferma che gli studenti devono diventare «”produttori” di architetture e contenuti digitali», per poi aggiungere più avanti: «e questo ce lo chiede il mondo del lavoro».^
48 Qualcuno ha cercato anche di investire questa nuova visione della scuola di contenuti progressisti. Nell’articolo di Jacopo Rosatelli, Cosa manca al movimento della scuola, pubblicato da Il Manifesto il 13 agosto 2017, si sostiene che dietro «l’anglo-pedagoghese si trovano modelli alternativi rispetto alla lezione ex-cathedra anti-autoritari, cooperativi e non competitivi, come la classe capovolta, dove gli alunni sarebbero loro in cattedra». In realtà la classe capovolta inverte solo i compiti da realizzare a casa e suola, non la posizione in classe degli alunni rispetto alla cattedra. L’articolo era una risposta ad un condivisibile intervento sullo stesso quotidiano (La ministra, Freud e il grande furto del tempo, 8 agosto) di Laura Marchetti, dove si parlava dell’invasione «prima di un linguaggio comico economicistico-militare (crediti, debiti, strategie, obiettivi, etc) e poi ancora più comico angli-pedagoghese».^
49 Ecco la Nuova vita del Piano scuola Digitale, cit., §7: «Ciò che il Paese chiede alla scuola in termini di competenze, attitudini e offerta formativa per sostenere le esigenze di innovazione digitale è ben chiaro a tutti».^
50 “Tuttoscuola”, n° 558, Gennaio 2016, pag. 54.^
51 Fulvio De Giorgi, Introduzione a H.Giroux…. (pos. 115).^
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