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"Non si pasce di cibo mortale chi si pasce di cibo celeste". Il convito e la fame tra mito, musica e teatro napoletano
di Paolo Isotta
I

Il primo dei tre trattati di Plutarco dedicati all’intelligenza degli animali è un appassionato manifesto contro l’abitudine dell’uomo di nutrirsi di carne: il titolo tradizionale è, infatti, De esu carnium. Come tutti sanno, l’interdetto contro il cibo carneo è di origine pitagorica e riposa sulla dottrina della metempsicosi; la sua tradizione filosofica passa per Teofrasto e giunge a Porfirio; la tradizione poetica è non si potrebbe più illustre, giacché il tema è cantato dalle Georgiche ed è oggetto della predica di Pitagora nel Quindicesimo Libro delle Metamorfosi di Ovidio. Il De esu carnium si apre con una terribile descrizione dell’umanità primigenia: la fame è addirittura un’ossessione. Il racconto assume toni fantastici e poetici, e pare, dalla ricostruzione atmosferica, quasi una descrizione del Mesozoico, non dell’epoca nella quale i nostri lontani antenati vivevano. Ma che dell’uomo delle origini la fame sia la prima preoccupazione è verità scientifica. Dunque, il cibo come aspirazione e necessità primaria. Il sacerdote di Cheronea immagina che un uomo del più antico stato, anteriore all’esistenza di comunità e società, gli si rivolga per descrivere la sua condizione.
Beati e cari agli dei voi che vivete adesso! Che epoca vi è toccata in sorte, quale smisurato possesso di beni avete e vi dividete! Quante piante nascono per voi, quanti frutti vengono raccolti; quanta ricchezza potete mietere dai campi, quanti prodotti gustosi cogliere dagli alberi! Vi è lecito anche vivere nell’abbondanza senza il rischio di contaminarvi. Noi, al contrario, abbiamo dovuto far fronte al periodo più cupo e terribile del mondo, perché ci siamo trovati in una condizione di grande e irrimediabile indigenza fino alla nostra prima comparsa sulla terra. L’aria occultava ancora il cielo e gli astri, mescolata a una fosca e impenetrabile umidità, al fuoco e ai turbini del vento. “Non ancora il sole” aveva assunto una posizione stabile,

né con il suo corso fisso distingueva alba
e tramonto, e li conduceva di nuovo indietro
dopo averli incoronati con le stagioni fruttifere
inghirlandate di bocciuoli, la terra era stata violentata


dallo straripare disordinato dei fiumi, e in gran parte “per le paludi era informe”1. Essa era inselvatichita da un profondo strato di melma e dal rigoglio di boscaglie e macchie sterili. Non venivano prodotti frutti domestici e non esisteva alcuno strumento dell’arte agricola, né c’era alcun espediente della ragione umana. A quel tempo la fame non dava tregua, e il seme del grano non attendeva le giuste stagioni dell’anno. Che c’è dunque di strano se contro natura siamo ricorsi alla carne degli animali, dal momento che si mangiava il fango “e si divoravano le cortecce degli alberi”, ed era una fortuna “trovare un germoglio di gramigna o una radice di giunco”? Dopo aver assaggiato una ghianda e averla mangiata, eravamo soliti danzare di gioia attorno a una quercia o a una farnia, chiamandola datrice di vita, madre e nutrice2.
Dunque il cibo, grazie al quale la vita si conserva e perpetua, è un elemento fondamentale del mito e della religione. Esso si trasforma in sangue; e il sangue è al tempo stesso nutrimento degli Dei e simbolo stesso del cibo. Possiamo vederlo da un celebre episodio dell’Odissea, che dà il titolo allo stesso Libro Undecimo del poema, la νέκυια, o l’evocazione dei morti per mezzo di una libazione rituale: della quale l’elemento principale è il sangue. Odisseo ha bisogno che Tiresia, evocato, vaticini; e Circe (X, 490 sqq.) gli spiega che, se al solo Tiresia è concesso di vaticinare da morto, i defunti dell’Ade, che quasi si sono dissolti, bevendo il sangue recuperano in parte memoria e loquela. Dunque il latte, il miele, il vino, la farina, e, ripeto, il sangue – esso più di tutto –sono in quest’episodio nutrimento e simbolo (XI, 24 sqq.)

Io, tratta l’aguzza lama lungo la coscia,
scavai una fossa di un cubito, in un senso e nell’altro,
e versai intorno un’offerta per tutti i defunti,
prima di latte e miele, dopo di dolce vino,
poi una terza di acqua; la cosparsi di bianca farina di orzo.
Feci voto con fervore alle teste senza forze dei morti,
di immolare, giunto ad Itaca, in casa,
la migliore vacca sterile e colmare di doni opulenti la pira,
e d’immolare a Tiresia, a lui solo, il montone
tutto nero, che nelle mie greggi spicca di più.
Dopo aver supplicato le stirpi dei morti con voti
e preghiere, afferrai e scannai sulla fossa
le bestie: fosco come nube il sangue scorreva. Dall’Erebo
si accalcarono le anime dei morti defunti.
Donne, giovani, vecchi provati da molto dolore,
tenere spose con acerbo strazio nell’animo,
molti squarciati da armi di bronzo,
uomini uccisi in battaglia, con le armi lorde di sangue:
s’aggiravano in folla intorno alla fossa, chi di qua chi di là,
con strano gridio: mi prese una pallida angoscia.
Allora ordinai ai compagni, incitandoli,
di scuoiare e bruciare le bestie che giacevano uccise
dal bronzo spietato e pregare gli dei,
Ade possente e la tremenda Persefone,
e intanto, tratta l’aguzza spada lungo la coscia,
mi appostai e impedii che le teste senza forza dei morti
si accostassero al sangue, prima d’interrogare Tiresia3.


Ulisse non vuole che il cibo dei morti vada sprecato, interessandogli prima di tutto il vaticinio. Dunque il poeta arcaico testimonia d’una concezione magico-religiosa per la quale il cibo è inteso, nel rapporto con l’oltremondo, in senso prettamente materiale. A lungo l’idea che il sangue come nutrimento, ma ora per i vivi, possegga qualità magiche, ma anche solo fisiche, è sopravvissuta. L’alchimia adoperava sangue infantile quale quinta essenza per l’elisir di lunga vita; e persino Marsilio Ficino, nel De sanitate tuenda, “prescriveva come rimedio allo sfinimento dell’età senile di bere sangue cavato dalle vene degli adolescenti”4.
Lo sguardo dato di straforo su di un’arcaicissima idea del cibo tocca per un istante il tema dell’antropofagia. Pur essa si affonda in una concezione magica: il cervello o il fegato del nemico vinto consentono d’impossessarsi della sua virtus. Claude Levi-Strauss tratta il tema in Tristi tropici; ma esso è già affrontato dagli autori antichi, e non solo in relazione alle carestie e ai terribili assedî, quando, esauriti gli stessi ratti e insetti, si passava a cibarsi di prigionieri e schiavi, poi dei cittadini più deboli. Ecco Erodoto a proposito dei Massageti, il popolo della regina Tomiri, che risiedeva nella zona meridionale dell’odierno lago di Aral.
Alla loro età non è fissato alcun termine, se non questo: quando uno è diventato molto vecchio, tutti i suoi familiari, radunatisi, lo sacrificano, e altri animali insieme a lui; poi banchettano, dopo aver bollito le carni. Ritengono ciò la cosa più felice: se uno muore di malattia, non se ne nutrono, ma lo seppelliscono in terra, considerando una sventura che non sia giunto a essere sacrificato5.
Il ripercorrere in senso antropologico e religioso la storia del concetto di sacrificio palesa sempre ciò: il sacrificio nasce quale nutrimento effettivo e materiale degli spiriti, poi degli Dei, e ciò che in sacrificio viene loro offerto è il loro cibo. A grado a grado il sacrificio da materiale diviene simbolico. Ne abbiamo la testimonianza nel Salmo L, ch’è uno dei più musicati del Salterio cattolico. Esso si chiude con questa coppia di versiculi:

Tunc acceptabis sacrificium iustitiae, oblationes et holocausta;
Tunc imponent super altare tuum vitulos.


La coppia di versiculi parla del sacrificio materiale, con vituli che sono cibo del Dio. Ma all’interno del Salmo ecco il sacrificio simbolico, la contrizione e la preghiera. Credo che il testo sia documento di due epoche diverse, senza che l’autore se ne renda conto appieno.

Quoniam si voluisses sacrificium, dedissem utique;
Holocaustis non delectaberis.
Sacrificium Deo spiritus contribulatus.


Al corpo si sostituisce la preghiera; il più eletto genere di preghiera è la musica sacra, ch’era nata come mezzo apotropaico verso gli spiriti e le divinità ostili, poi come strumento per blandire e anche costringere le divinità propizie. Il canto sacro come nutrimento degli Dei è trattato diffusamente, in particolare, nei saggi del grande storico della musica Marius Schneider; dunque, la musica è una eletta forma di cibo degli Dei. Dapprima pur esso materiale; perdendo l’essenza materiale, si trasforma in lode: e gli Dei, dacché se ne nutrono, se ne compiacciono. Sant’Agostino dice che il jubilus è la forma di sacrificio a Dio più grata.
Infine: non parlerò d’un altro concetto religioso assai complesso, quello che la divinità vada, in maniera simbolica o materiale, mangiata perché l’adepto partecipi della sua essenza. Gli storici della religione dicono che gli stessi culti di Osiride e di Dioniso ne sono lambiti, se non intrisi; ma n’è informata metafisicamente la cristiana Eucarestia. Lo ricordo, in particolare, per la celebrazione eucaristica inventata da Wagner per il finale del primo e del terzo atto del Parsifal: egli la chiama Liebesmahl, mensa d’amore o sacra agape. Nel suo modo di rielaborare il mito cristiano per impossessarsene egli giunge a ciò: la transustanziazione non è del pane e del vino che divengono corpo e sangue di Cristo, ma del sangue raccolto nella Coppa quando Longino trafigge il Cristo sulla croce che diviene nutrimento per il corpo di predestinati cavalieri della confraternita.
Il valore religioso del cibo può vedersi anche nei pasti in comune delle fratrie antiche. Il cibo consumato insieme avvalorava metafisicamente il vincolo dell’ospitalità, e questo sin dal mondo omerico.
Veniamo ora al tema più specifico della conversazione. La fame dev’esser vista nel suo senso tragico e atroce; e se Piero Camporesi ci ricorda ch’essa è addirittura la prima delle droghe per la capacità di produrre “alterazioni mentali e stati sognanti”, la grande arte ne dà raffigurazioni tragiche. Sempre il Camporesi riproduce uno straordinario passo di San Basilio, dall’Homilia dicta tempore famis et siccitatis, sul quale si è esemplata la descrizione dantesca di Forese Donati nel Ventitreesimo del Purgatorio, il goloso punito con i terribili sintomi d’un’inestinguibile fame.
E tuttavia il teatro comico sin dalle origini fa della fame un oggetto di riso. La Commedia Nuova dedica spazio al personaggio del parassita, colui che deve arrangiarsi per mangiare, invitato da un ricco. Nei Captivi di Plauto, volta l’eleganza menandrea in italum acetum, ascoltiamo lo straordinario monologo del parassita Engasilo. Sono i versi 461-497.

Miser homost, qui ipsus sibi quod edit quaerit et id aegre inuenit.
Sed illest miserior, qui et aegre quaerit et nihil inuenit.
Ille miserrimus, qui, quom esse cupit, tum quod edit non habet.
Nam hercle ego huic die, si liceat, oculos ecfodiam lubens:
Ita malignitate onerauit omnis mortalis mihi.
Neque ieiuniosiorem nec magis ecfertum fame
Vidi nec quoi minus procedat quidquid facere occeperit:
Ita uenter gutturque resident esurialis ferias.
Ilicet parasiticae arti maxumam malam crucem:
Ita iuuentus iam ridiculos inopes ab se segregat.
Nil morantur iam Lacones imi subselli uiros,
Plagipatidas, quibus sunt uerba sine penu et pecunia.
Eos requirunt, qui, lubenter quom ederint, reddant domi.
Ipsi obsonant, quae parasitorum ante erat prouincia.
Ipsi de foro tam aperto capite ad lenones eunt,
Quam in tribu sontis aperto capite condemnant reos.
Neque ridiculos iam terunci faciunt: sese omnes amant.
Nam ego ut dudum hinc abii, accessi ad adulescentis in foro:
“Saluete” inquam “quo imus una ad prandium?” atque illi tacent.
“Quis ait ‘hoc’aut quis profitetur?” inquam: quasi muti silent,
Neque me rident. “Vbi cenabimus una?” inquam, atque illi abnuont.
Dico unum ridiculum dictum de dictis melioribus,
Quibus solebam menstrualis epulas ante adipiscier:
Nemo ridet. Sciui extemplo rem de conspecto geri.
Ne canem quidem inritatam noluit quisquam imitarier,
Saltem, si non adriderent, dentis ut restringerent.
Abeo ab illis, postquam uideo me sic ludificarier.
Pergo ad alios, uenio ad alios, deinde ad alios: una rest.
Omnes de conspecto rem agunt, quasi in Velabro olearii.
Item alii parasiti frustra obambulabant in foro.
Nunc redeo inde, quoniam me ibi uideo ludificarier.
Nunc barbarica lege certumst ius meum omne persequi.
Qui consilium iniere, quo nos uictu et uita prohibeant.
Is diem dicam, inrogabo multam, ut mihi cenas decem
Meo arbitratu dent, quom cara annona sit. Sic egero.
Nunc ibo ad portum hinc: est illic mi una spes cenatica:
Si ea decolabit, redibo huc ad senem ad cenam asperam.


Molière, Goldoni, Petito, Scarpetta, Totò: vengono tutti da Plauto, ma forse nessuno ha saputo trovare un tale ritmo, una tale forza, una tale capacità di coniare neologismi. Le feriae esuriales e la spes cenatica! È il genio allo stato puro.
Leggiamo la traduzione di Ettore Stampini (1888).
Infelice colui che si cerca da mangiare e lo trova con tutti gli stenti; ma più infelice colui, che lo cerca con tutti gli stenti e non trova niente: infelicissimo colui, che, allorquando brama di mangiare, non ha di che mangiare. E veramente, per dio, se lo potessi, a questo giorno maledetto volentieri caverei gli occhi: tanto ha reso la gente piena di spilorceria verso di me! Non ne ho mai visto altro più digiunativo né più zeppo di fame, né uomo a cui vada più a rovescio checchè si accinga a fare. In questo modo la pancia e la gola passan gli ozi delle feste famali. Il mestiere del parassito se ne può ire alla malora, dacchè la gioventù tiene omai lontani da sé i burloni poveri. Non fa più caso degli Spartani soffribusse, uomini da ultimi posti, che non hanno altro patrimonio né altra dispensa che i loro motti. È cercan solo quelli che, dopo aver mangiato con gusto, restituiscan loro il pranzo in casa. Essi stessi vanno a fare la spesa del pranzo, incarico che prima toccava à parassiti. Essi stessi a viso aperto si recano dal foro ai ruffiani, come a viso aperto ne’ comizi tributi condannano gl’imputati colpevoli. I buffoni è non li stiman più un centesimo. Sono tutti una massa di egoisti. Perocchè, come poco fa mi fui partito di qui, mi accostai sul mercato a de’ giovanotti, e “buon giorno”, dico loro, “dove andiamo oggi a colazione” E loro zitti. “Non c’è nessuno che mi risponda ‘qua’? non c’è nessuno che gentilmente si presti?” dico io. E loro zitti come mutoli. Non mi sorridon nemmeno. “Dove si pranza insieme?” dico io: e loro fan cenno di no. Metto fuori uno de’ miei motti spiritosi, di quei più saporiti, coi quali in altri tempi mi soleva buscar la tavola per un mese. Neanche un sorriso. Capii subito che s’eran dati l’intesa. Non ci fu neppur uno che volesse imitare una cagna stizzita. Almeno, se non volevan sorridere, avessero digrignato i denti. Vedendomi così burlato, li pianto lì. Mi dirigo ad altri, vengo ad altri, poi ad altri, sempre la stessa musica. Tutti si sono messi d’accordo, come gli oliandoli nel Velabro. Anche altri parassiti s’aggiravano del pari inutilmente pel mercato. Ed io adesso, visto che quivi ero messo in burletta, me ne ritorno: ma ho stabilito di far valere tutti i miei diritti secondo una legge romana. Quelli che han fatto congiura per toglierci e vitto e vita, li farò citare; schiafferò loro tal multa, che sieno obbligati a darmi dieci pranzi a mio piacimento, quand’è sia rincarato il prezzo dei viveri. Ora me ne vado al porto: là ci ho ancora un’unica speranza mangiatica. Se sfumerà anch’essa, ritornerò qua dal vecchio a mangiare quel suo pranzo a punte.


II

Or la fame è una realtà così tragica che l’idea del cibo si trasforma per ciò stesso in una metafisica e fisicissima celebrazione della vita. E la taverna diviene un tempio alla vita celebrata panicamente, comicamente, scurrilmente persino.
Un Medio Evo ateo, licenzioso e sensuale, profondamente tragico, anche delicatissimo nella celebrazione erotica, infine carnalissimo, troviamo nelle poesie (prevalentemente) duecentesche, dotate di intonazione musicale, che, dal luogo ov’è allocato il manoscritto, il monastero benedettino di Benediktbeuern, definiamo Carmina Burana.
Due intermezzi comici: uno è dedicato al compianto che un cigno rivolge a se stesso mentre viene arrostito, l’altro è la vanitosa autocelebrazione di un abate ghiottone e giuocatore, secondo la tradizione che fa degli ordini mendicanti il ricettacolo dell’ipocrisia, dell’avarizia, del vizio. Ma questo abate di Cuccagna è solo allegro, strafottente, prepotente.

Ego sum abbas Cucaniensis
et consilium meum est cum bibulis,
et in secta Decii voluntas mea est,
et qui mane me quesierit in taberna,
post vesperam nudus egredietur,
et sic denudatus veste clamabit:
Wafna, wafna!
quid fecisti sors turpissima?
Nostre vite gaudia
abstulisti omnia!


Il Boccaccio chiama Bengodi il paese del quale l’Abate è dignitario: in Calandrino e l’elitropia: e sempre si vede l’ossessione dell’abbondanza nata dalla fame:

Berlinzone, terra de’ Baschi, nella quale si legano le vigne con le salsicce, ed avevasi un’oca a denaio ed un papero giunta; ed eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli e cuocergli in brodo di capponi.


Leggiamo, sulla cuccagna, una pagina di un antropologo, Luigi Maria Lombardi Satriani6.

Nella Roma del Rinascimento si celebrava la “cuccagna del porco”, durante la quale veniva lanciata dall’alto un’enorme quantità di generi alimentari al popolo, che li raccoglieva e divorava; papa Paolo II – si racconta – soleva assistere di nascosto a queste orge alimentari e domus fenestra, unde secrete convivantem populum prospicere poterat. Il piacere segreto e solitario del papa non doveva essere molto diverso dal gusto con cui gli aristocratici e il re di Napoli assistevano alle gozzoviglie dell’infima plebe durante le cuccagne carnevalesche; e l’uno e l’altro possono aiutarci a comprendere le ragioni per cui i signori hanno reso possibile, consentito e preteso che la fame ingorda di Pulcinella li divertisse per oltre tre secoli: l’attrippata vorace e sterminata di chi è solito vivere nella scarsità, il piacere vitalistico dell’abboffata plebea costituivano una liberazione per procura dalla rigidezza del codice cortigiano delle buone maniere a tavola, dalla regolarità del banchetto aristocratico.


All’“Autunno del Medio Evo” appartiene La nave dei folli di Jeronimus Bosch; all’incipiente Barocco due celebri dipinti di Breughel il Vecchio, Proverbî fiamminghi e La cuccagna. Questi tre quadri, di carattere emblematico e simbolico, narrano di una società, prevalentemente contadina ma della quale fan parte anche chierici e borghesi, a tal punto assalita dalla penuria che il suo tema onirico dominante è il cibo: sovrabbondante, smodato, gratuito, che da sé si cucini e vada nelle bocche dei gaudenti. Sono trattati storici e sociologici, questi dipinti.
Una delle canzoni dei Carmina è In taberna quando sumus. Il grande compositore Carl Orff, particolarmente legato al mondo classico e latinista e grecista, ha reinterpretato alcune delle poesie facendone una silloge divenuta popolarissima come pezzo da concerto ma che andrebbe eseguita in forma teatrale con canto e danza: il titolo è infatti Cantiones profanae cantoribus et choris cantandae comitantibus instrumentis atque imaginibus magicis. In taberna, nell’intonazione di Orff, che coglie appieno il senso della poesia, su di un “ostinato” ritmico che diventa ossessivo e produce una sorta di estasi magica, è una danza universale, insieme danza macabra e danza della vita, nella quale l’universo intero è convocato a bere in un tripudio dionisiaco che assume e redime ogni aspetto, persino quelli bassi, dell’esistenza; e nega irridendo l’anima e la vita eterna. La taverna, sacra a Dioniso, è dunque il luogo, contrapposto a chiesa, chiostro, talamo coniugale, in che si attua la fondamentale libertà dell’uomo. Il “crescendo” armonico e fonico creato dall’Autore attribuisce al tripudio quell’aspetto tragico e terribile che sempre appartiene alla categoria del Dionisiaco. Ascoltiamo dunque il brano di Orff.

In taberna quando sumus,
non curamus quid sit humus,
sed ad ludum properamus,
cui semper insudamus.

Quid agatur in taberna,
ubi nummus est pincerna,
hoc est opus ut queratur,
si quid loquar, audiatur.
Quidam ludunt, quidam bibunt,
quidam indiscrete vivunt.
Sed in ludo qui morantur,
ex his quidam denudantur,
quidam ibi vestiuntur,
quidam saccis induuntur.
Ibi nullus timet mortem,
sed pro Bacho mittunt sortem:
Primo pro nummata vini;
ex hac bibunt libertini,
semel bibunt pro captivis,
post hec bibunt ter pro vivis,
quater pro Christianis cunctis,
quinquies pro fidelibus defunctis,
sexies pro sororibus vanis,
septies pro militibus silvanis.

Octies pro fratribus perversis,
nonies pro monachis dispersis,
decies pro navigantibus,
undecies pro discordantibus,
duodecies pro penitentibus,
tredecies pro iter agentibus.
Tam pro papa quam pro rege
Bibunt omnes sine lege.

Bibit hera, bibit herus,
bibit miles, bibit clerus,
bibit ille, bibit illa,
bibit servus cum ancilla,
bibit velox, bibit piger,
bibit albus, bibit niger,
bibit constans, bibit vagus,
bibit rudis, bibit magus.

Bibit pauper et egrotus,
bibit exul et ignotus,
bibit puer, bibit canus,
bibit presul et decanus,
bibit soror, bibit frater,
bibit anus, bibit mater,
bibit ista, bibit ille,
bibunt centum, bibunt mille.

Parum sexcente nummate
durant cum immoderate
bibunt omnes sine meta,
quamvis bibant mente leta;
sic nos rodunt omnes gentes,
et sic erimus egentes.
Qui nos rodunt confundantur
et cum iustis non scribantur.


Questa è la traduzione di Giuseppe Vecchi, da me ritoccata in più punti; l’ultima strofe vi manca perché propria di Orff.

Quando siamo alla taverna,
non c’importa della tomba,
ma al giuoco ci affrettiamo,
al quale ognora ci accaniamo.

Che si faccia all’osteria,
dove il soldo la fa da coppiere,
questo è da chiedere:
si dia ascolto a ciò che dico.

C’è chi giuoca, c’è chi beve,
c’è chi vive ostentando il vizio,
e fra coloro che attendono al giuoco
c’è pure chi se n’esce nudo,

chi al contrario si riveste,
e chi deve coprirsi di sacco.
Qui nessuno teme la morte
ma per Bacco gettano la sorte.

Prima si beve a chi paga il vino,
e questa è la bevuta dei libertini;
un bicchiere per i prigionieri,
poi tre per i vivi,

quattro per i cristiani tutti,
cinque per i fedeli defunti,
sei per le sorelle leggere,
sette per i cavalieri erranti,

otto per i fratelli traviati,
nove per i monaci vaganti,
dieci per i naviganti,
undici per i litiganti,

dodici per i penitenti,
tredici poi per i partenti.
E per il papa ed il re
Si beve tutti senza freno.

Beve la signora, beve il signore,
beve il soldato, beve il clero,
beve quello, beve quella,
beve il servo con l’ancella,

beve il lesto, beve il pigro,
beve il bianco, beve il negro,
beve il fermo, beve il vago,
beve il rozzo, beve il mago,

beve il povero e il malato,
beve l’esule e l’ignorato,
beve il piccolo e l’anziano,
beve il presule e il decano,

beve la sorella, beve il fratello,
beve la vecchia, beve la madre,
beve questo, beve quello,
bevono cento, bevono mille.

Nemmeno seicento ducati resistono
se tutti bevono senza freno,
e purché bevano a mente lieta.
E così, ingiuriati da tutti,
diventeremo poveri.
Ma chi ci rode, siano confusi,
e mai ascritti fra i giusti!


Prima di ammirare un’altra celebrazione dionisiaca e pagana del vino, concentriamo la nostra attenzione su di una festa del frutto della vite concepita in modo cattolico insieme e massonico. Il sommo Haydn celebra la Natura nella fase finale della sua arte: con i due grandiosi Oratorî sulla Creazione (Die Schöpfung: 1798) e sulle Stagioni (Die Jahreszeiten: 1801). Ambedue sono a lode del Creatore; pure, in ispecie nel secondo, spira una pagana gioia della vita, una gioia quasi fisica, della quale il Maestro, se gli avessero spiegato trattarsi di gioia pagana, si sarebbe fatto le più grandi meraviglie. La gioia è così profonda e così contagiosa che la descrizione della caccia, facente parte dell’Autunno, coinvolge e rende gioioso pur chi senta la nostra fraternità cogli animali e consideri cosa brutale e da condannarsi recisamente la caccia come passatempo – diciamo, come sport. La sezione dell’Autunno delle Stagioni si chiude colla festa della vendemmia e del vino novello. Percorre il brano che celebra la festa una robusta salute fisica e quasi quel che un filosofo in proprio ammalatissimo, Federico Nietzsche, chiamerà l’Unschuld des Werdens, L’Innocenza del Divenire. Un possente Corale in Do maggiore inframmezzato da imitazioni fugate tipiche dello stile di Haydn è seguito da una sezione arieggiante il Valzer paesano austriaco, mentre l’orchestra, con il metro della danza di sei ottavi, con “pedali” armonici e l’unisono con “acciaccature”, imita il suono della cornamusa. Dopo una sezione di ricapitolazione la danza riprende possente. Si tratta di estasi panica.
Riproduco excerpta del testo dovuto al grande uomo di cultura e massone Gottfried van Swieten, ch’era a capo della biblioteca cesarea di Vienna.

Am Rebenstocke blinket jetzt
Die helle Traub’ in vollem Sanfte
Und ruft dem Winzer freundlich zu,
Dass er zu lesen sie nicht weile.
[…]
Die Arbeit fördert lachender Scherz
Vom Morgen bis zum Abend hin,
Und dann erhebt der brausende Most
Die Fröhlichkeit zum Lustgeschrei.
Sul ceppo della vite brilla adesso
il lucido grappolo succoso
il quale, cordiale, chiama il vignaiuolo
che non tardi a coglierlo.
[…]
L’allegro scherzo stimola il lavoro
da mane a sera,
poi il frizzante mosto eleva
l’allegria in gioiose grida.


Forse il barone Swieten non sapeva che dalle feste in onore del vino e dalle rappresentazioni improvvisate durante esse nasce il teatro tragico greco; ma i rustici scherzi evocati dal testo sono quelli del Secondo delle Georgiche, là ove Virgilio dai rustici scherzi della vendemmia, accompagnati a carmina laeta, fa nascere il teatro comico italico (385-9):

Nec non Ausonii, Troia gens missa, coloni
versibus incomptis ludunt risuque soluto
oraque corticibus sumunt horrenda cavatis
et te, Bacche, vocant per carmina laeta tibique
oscilla ex alta suspendunt mollia pinu.


Traduce Francesco Della Corte:

Immigrata in Ausonia, la gente venuta da Troia,
scherza in versi storpiati e con incomposte risate,
si camuffa sotto maschere orrende di corteccia scavata;
sei invocato, o Bacco, in giulive canzoni e per te
sulla cima di un pino rimangono appesi pupazzi di stoffa.


Ecco il testo che s’accompagna alla musica della danza.

Nun tönen die Pfeifen
Und wirbelt die Trommel,
Hier kreischet die Fiedel,
Da schnarret die Leier,
Und dudelt der Bock.
Schon hüpfen die Kleinen,
Und springen die Knaben;
Dort fliegen die Mädchen
In Arme der Burschen
Den ländlichen Reih’n.

Ora suonino i rustici flauti7
e rulli il tamburo,
qui stride il violino,
qua ronfa la piva,
soffia la zampogna.

Già saltellano i bimbi
e balzano i fanciulli,
là le fanciulle volano
in braccio ai giovinotti
nella ronda paesana.


E ora una celebrazione del vino di nuovo palesemente dionisiaca. Si trova nell’ultima Opera comica di Rossini, Le comte Ory, scritta a Parigi nel 1824; ma più rettamente non Opera comica va definita, sibbene una scettica commedia di costume e in costume. Il trentaduenne, stabilitosi a Parigi grazie a un contratto col quale Carlo X lo nominava quasi dittatore musicale del suo regno, mette in musica un delizioso testo di Eugène Scribe. Il poeta, traendo il tema da una Ballata medioevale, fa un monumento all’immoralismo, alla gioia dell’eros e delle sue complessità, in aperto spregio allo spirito bigotto degli anni della Restaurazione; e, insieme, satireggia la religione e il gusto per il Medio Evo che l’incipiente Romanticismo letterario aveva messo in voga. Ma dall’elegante spirito all’affermazione del Dionisiaco, occorreva che il congegno teatrale trascorresse per le mani del compositore che di Dioniso e insieme di Apollo era la reincarnazione.
L’azione si finge nel XIII secolo. Il giovane conte Ory viaggia con una truppa di ragazzi come lui, per nulla perterriti dalla presenza dell’aio, che il duca padre ha messo alle costole del libertino figlio. Il luogo è il castello di Fourmoutier. Il conte proprietario è alla Crociata e il giovane Ory vuol sedurre la contessa. Nel primo atto si traveste da eremita itinerante e ottiene di confessarla; ma il travestimento viene scoperto. Nel secondo atto egli e la banda giungono nel castello sotto abito monacale: ma di suore. Affettando unzione, pietà, ingenuità, carpiscono di nuovo la fiducia della contessa e delle donne restate al castello. Naturalmente la nobile signora fa apprestare per le suorine un pasto idoneo al loro stato, latte e frutta. I ragazzi si sentono venir meno dalla tristezza; ma una delle false monache, Raimbaud, è riuscita a trovare le munite cantine del maniero e porta alle consorelle il frutto della rapina che ha effettuata. Ascoltiamo ora questo capolavoro non tanto di comicità, quanto di finezza psicologica. Il baritono fa dapprima il racconto della sua esplorazione e il catalogo dei vini reperiti: e qui incontriamo uno degli stilemi più tipici del Rossini comico, una velocissima salmodia recto tono inserita in un disegno orchestrale sviluppato autonomamente. Quando il vino è nelle mani della banda di ragazzi, ecco una chanson à boire, franca, irridente; che s’interrompe per una sezione centrale alla tonalità del terzo grado abbassato, La bemolle maggiore (l’impianto è Fa maggiore): i monellacci cantano un Corale devoto, fingendo di pregare, perché passa la dama di compagnia della Contessa; indi riprendono a inneggiare al vino con maggior lena. Il tripudio dionisiaco con che la scena si chiude avrebbe sommamente eccitato Federico Nietzsche se avesse potuto conoscer il primo capolavoro scritto ex novo in francese da Rossini.

LES PRÉCÉDENTS, RAIMBAUD,
tenant un panier sous son manteau de pèlerine
RAIMBAUD
En voici, mes amis.
TOUS, se levant
C’est Raimbaud!
RAIMBAUD
En héros j’ai tenté l’aventure,
Et je viens partager ma capture.
Approchez, écoutez.

Dans ce lieu solitaire,
Propice au doux mystère,
Moi, qui n’ai rien à faire,
Je m’etais endormi.
Dans mon âme indécise,
Certain goût d’entreprise
Que l’exemple autorise
Vient m’éveiller aussi.
C’est le seul moyen d’être
Digne d’un pareil maître,
Et je veux recconnaître
Ce manoir en détail!
Je pars … Je m’oriente;
A mes yeux se présente
Une chambre élégante,
C’est celle du travail.
Une harpe jolie …
De la tapisserie;
Près d’une broderie
J’aperçois un roman!
Même en une chambrette,
J’ai, dans une cachette,
Cru voir l’historiette
Du beau Tiran-le-Blac!
Je sors de l’oratoire
Et j’entre au réfectoire
Ou rien ne me fait croire
A l’espoir d’un festin …
Marchant à l’aventure
Sous une voûte obscure,
J’entrevois l’ouverture …
D’un affreux souterrain.
Une beauté naïve,
Peut-être ici captive?
Je m’elance … et j’arrive
Dans un vaste cellier,
Dont l’étendue immense
Et la bonne apparence
Attestaient la prudence
Du sir de Fourmoutier,
Arsenal redoutable,
Qui fait qu’on puise à table
Un courage indomptable
Contre le Sarrasin.
Armée imense et belle
D’une espèce nouvelle
Plus à craindre que celle
Du sultan Saladin …
Près de vins de Touraine,
Je vois ceux d’Aquitaine!
Et ma vue incertaine
S’égare en les comptant.
Là, je vois l’Allemagne;
Ici, brille l’Espagne;
Là, frémit le Champagne
Du joug impatient.
J’hésite … ô trouble extrême!
O doux péril que j’aime!
Et seul, avec moi-même,
Contre tant d’ennemis,
Au hasard je m’élance,
Sans compter je commence,
J’attaque avec vaillance,
A la fois vingt pays.
Quelle conquête
Pour moi s’apprête!...
Mais je m’arrête,
J’entends du bruit.
Quelqu’un s’avance,
Vers moi s’élance!
On me poursuit.
De notre course les murs en frémissent,
Ils retentissent,
On crie: Arrête, arrête, arrête!
Et mois, je fuis soudain.
Quel jour de fête!
De ma conquête
O mes amis
Voilà les fruits!
LE COMTE
Du fruit de sa victoire
Il fait hommage à l’amitié;
Dans sa conquête et dans sa gloire
Soyons tous de moitié.
TOUS, ôtant les bouteilles du panier
Partageons son butin!
Qu’il avait de bon vin
Le seigneur châtelain!
Pendant qu’il fait la guerre
Au Turc, au Sarasin,
A sa santé si chère
Buvons ce jus divin.
Buvons, buvons jusqu’à demain.
Quelle douce ambroisie!
Célébrons tour à tour
Le vin et la folie,
Le plaisir et l’amour.
LE COMTE
On vient …. C’est la tourière! …
Silence! taisez-vous!
Mettez-vous en prière,
Ou bien c’est fait de nous.
LE CHOEUR
Toi que je révère,
Entends ma prière,
O dieu tutélaire,
Viens dans ta bonté
Sauver l’innocence
Et que ta puissance
Un jour récompense
L’hospitalité!
LES PRÉCDÉNTS, DAME RAGONDE
traversant le théâtre et examinant si les pèlerines n’ont besoin de rien; tous les chevaliers, fermant leur pèlerine, et cachant leur bouteille, sans avoir l’air de voir Ragonde, laquelle les regarde d’un air attendri, lève les yeux au ciel, et s’éloigne.
RAIMBAUD
Elle a disparu,
Réparons bien le temps perdu.
(il boit)
TOUS
Buvons, jusqu’à demain
Qu’il avait de bon vin
Le seigneur châtelain!


Al dionisiaco quale pura gioia a un dionisiaco intimamente tragico travestito da festa dell’epoca Luigi-Filippo: sempre in onore del vino. Nel primo atto della Traviata assistiamo al più celebre brindisi della letteratura musicale. Dev’esser fatto, credo, con vino di sciampagna, come l’italiano di allora chiamava il frizzante vino francese. E questo Brindisi ha una funzione drammatica insieme e catartica; è pronunciato da una donna giovanissima ammalata a morte la quale vuole inebriarsi e inneggiare alla voluttà per dimenticare la fine ch’ella ben sa prossima. Fine che ella ancor più prossima col suo sacrificio renderà. Verdi inventa una musica di singolare eleganza all’interno di una festa del volgare demi-monde parigino, a metter in rilievo la distinzione spirituale della sua prostituta d’alto rango protagonista; e nulla offende l’arte quanto il fatto che questo brano sia per lo più considerato avulso dal contesto drammatico pel quale è concepito, ed eseguito come un pezzo brillante per soprano leggero: cosa che Violetta non è, essendo invece un soprano drammatico di coloratura, specie oggi quasi estinta.
Una sorta di matta bestialità, per trasporre in un comico-grottesco la formula di Dante, arieggia nella chanson à boire della seconda parte de La damnation de Faust di Berlioz. Il testo poetico, dovuto allo stesso sommo compositore, è tratto da Goethe ma se ne discosta, anche nel significato simbolico, di gran tratti. L’episodio in questione è quello della cantina di Auerbach: nel poema tedesco assistiamo al piccolo prodigio di Mefistofele che fa sgorgare dalla botte varî tipi di vino, ciascuno secondo il gusto dell’avventore; Berlioz scrive invece una chanson à boire lo stile della quale descrive la stolidità materialistica dei beoni della cantina. Lo cogliamo dalle tre pesanti battute d’introduzione di tutti i fiati dell’orchestra, con una figura ritmica sghemba e i cromatismi delle parti interne delle cornette; la stessa figura ritmica torna negl’interludî posti, sempre dai fiati, a un canto dalla melodia grossolana, che poi si frange in goffe imitazioni corali. Ecco il testo, con le sue sciocche e casuali rime.

Oh! qu’il fait bon quand le ciel tonne
Rester près d’un bol enflammé,
Et se remplir comme une tonne
Dans un cabaret enfumé!
J’aime le vin et cette eau blonde
Qui fait oublier le chagrin.
Quand ma mère me mit au monde
J’eus un ivrogne pour parrin.

Un’altra canzone a bere ricordiamo nel teatro musicale, quella di Jago nel primo atto dell’Otello di Verdi, Innaffia l’ugola! Trinca, tracanna! La melodia e l’armonia sghembe di una falsa allegria dietro la quale si cela diabolica malizia: Jago ubriaca l’odiato Cassio per spingerlo a rovinarsi.
L’ultimo capolavoro di Verdi è il Falstaff, su un poema drammatico che Arrigo Boito genialmente desume, non traduce, da Shakespeare. In quest’opera si celebrano grandi mangiate e soprattutto grandi bevute; e del vino e dei liquori si fa addirittura la metafisica. Sir John Falstaff, da paggio del duca di Norfolk, era un ragazzo sottile; gentiluomo rovinato, vive col suo enorme ventre e ne prova una soddisfazione che si fonde col suo orgoglio sessuale. Nel primo atto dice:

Oste! un’altra bottiglia.
(Rivolto ancora a Bardolfo e Pistola.)
Mi struggete le carni! Se Falstaff s’assottiglia
Non è più lui, nessun più l’ama; in questo addome
C’è un migliaio di lingue che annunciano il mio nome!


All’inizio del terzo atto, dopo esser stato gettato nel Tamigi dalle Comari, si riprende con “un bicchier di vin caldo”. Sul vino medita: forze vitale prima della psiche che del corpo. E dal vino nasce il trillo, che percorre l’uomo: il trillo che qui è immagine della stessa fantasia creatrice artistica, come si desume, sebbene non si dichiari, dal testo. Verdi sopraggiunge, e inventa un trillo strumentale che s’estende a tutte le voci dell’orchestra fino a tradurre la forza universale del trillo detta dalla poesia di Boito.

M’aiuti il ciel – Impinguo troppo. – Ho dei peli grigi.
[…]
Versiamo un po’ di vino nell’acqua del Tamigi.
(Beve sorseggiando e assaporando. Si sbottona il panciotto, si sdraia, ribeve a sorsate, rianimandosi a poco a poco.)
Buono. – Ber del vin dolce e sbottonarsi al sole,
Dolce cosa! Il buon vino sperde le tetre fole
Dello sconforto, accende l’occhio e il pensier, dal labbro
Sale al cervel e quivi risveglia il picciol fabbro
Dei trilli; un negro trillo che vibra entro l’uom brillo.
Trilla ogni fibra in cor, l’allegro etere al trillo
Guizza e il giocondo globo squilibra una demenza
Trillante! E il trillo invade il mondo!!! …


Dunque: una demenza trillante squilibra il giocondo globo: l’immaginativa artistica, ossia il trillo, che nasce dal vino, è una potenza eversiva dell’ordine. Bacco non è nominato ma di lui parlano questi versi e soprattutto la pagina di Verdi.
Chiudiamo questa sezione con un altro elogio del vino. Il dionisiaco v’è, ma è accolto da un’anima sofferente sempre alla ricerca del Dio cattolico: è un pensoso spirito dionisiaco cattolico, e direi francescano; è uno dei più grandi spiriti poetici dell’Ottocento, Clarles Baudelaire. Cinque poesie delle Fleurs du mal formano una sezione intitolata Il vino. La traduzione tedesca di Stefan George viene intonata nel 1929 da Alban Berg in una raffinatissima “Aria da concerto”, Der Wein, nella quale le allusioni alla musica “di consumo” e allo “stile basso”, espresse anche dalle stagnanti armonie, si accompagnano allo strenuo, celestiale lirismo dissonante della voce di soprano. Berg mette in musica L’âme du vin, Le vin des amants e Le vin du solitaire, invertendo la successione delle ultime due poesie. Riproduco qui il testo di Baudelaire.

L’AME DU VIN
Un soir, l’âme du vin chantait dans les bouteilles:
“Homme, vers toi je pousse, ô cher déshérité,
Sous ma prison de verre et mes cires vermeilles,
Un chant plein de lumière et de fraternité!

Je sais combien il faut, sur la colline en flamme,
De peine, de sueur et de soleil cuisant
Pour engendrer ma vie et pour me donner l’âme;
Mais je ne serai point ingrat ni malfaisant,

Car j’éprouve une joie immense quand je tombe
Dans le gosier d’un homme usé par ses travaux,
Et sa chaude poitrine est une douce tombe
Ou je me plais bien mieux que dans mes froids caveaux.

Entends-tu retentir les refrains des dimanches
Et l’espoir qui gazouille en mon sein palpitant?
Les coudes sur la table et retroussant tes manches,
Tu me glorifieras et tu seras content;

J’allumerai les yeux de ta femme ravie;
A ton fils je rendrai sa force et ses couleurs
Et serai pour ce frêle athlète de la vie
L’huile qui raffermit les muscles des lutteurs.

En toi je tomberai, végétale ambroisie,
Grain précieux jeté par l’éternel Seigneur,
Pour que de notre amour naisse la poésie
Qui jaillira vers Dieu comme une rare fleur!”

LE VIN DU SOLITAIRE
Le regard singulier d’une femme galante
Qui se glisse vers nous comme le rayon blanc
Que la lune onduleuse envoye au lac tremblant,
Quand elle y veut baigner sa beauté nonchalante;

Le dernier sac d’écus dans les doigts d’un joueur;
Un baiser libertin de la maigre Adeline;
Les sons d’une musique énervante et câline,
Semblable au cri lointain de l’humaine douleur,

Tout cela ne vaut pas, ô bouteille profonde,
Les baumes pénétrants que ta panse féconde
Garde au coeur alteré du poète pieux:
Tu lui verses l’espoir, la jeunesse et la vie,
-Et l’orgueil, ce trésor de toute gueuserie,
Qui nous rend triomphants et semblables aux Dieux!

LE VIN DES AMANTS
Aujourd’hui l’espace est splendide!
Sans mors, sans éperons, sans bride,
Partons à cheval sur le vin
Pour un ciel féerique et divin!

Comme deux anges que torture
Une implacable calenture,
Dans le bleu cristal du matin
Suivons le mirage lointain!

Mollement balancés sur l’aile
Du tourbillon intelligent,
Dans un délire parallèle,

Ma soeur, côte à côte nageant,
Nous fuirons sans repos ni trêves
Vers le paradis de mes rêves!


Leggiamo almeno la prima delle poesie siccome musicata da Berg, giacché anche la musica di George è meravigliosa.

Des weines geist begann in fass zu singen:
Mensch – teurer Ausgestossener – dir soll
Durch meinen engen kerker durch erklingen
Ein lied von licht und bruderliebe voll.
Ich weiss: am sengendheissen bergeshange
Bei schweiss und mühe nur gedeih ich recht
Da meine seele ich nur so empfange
Doch bin ich niemals undankbar und schlecht.

Und dies bereitet mir die grösste labe
Wenn eines arbeit-matten mund mich hält
Sein heisser schlund wird mir zum kühlen grabe
Das mehr als kalte keller mir gefällt.

Hörst du den sonntagsang aus frohem schwarme?
Nun kehrt die hoffnung prickelnd in mich ein;
Du stülps die ärmel – stützest beide arme
Du wirst mich preisen und zufrieden sein.

Ich mache deines welbes augen heiter
Und deinem sohne leih ich frische kraft
Ich bin für diesen zarten lebensstreiter
Das öl das fechtern die gewandheit schafft.

Und du erhältst von diesem pflanzenseime
Den Gott – der ewige sämann – niedergiesst
Damit in deiner brust die dichtkunst keime
Die wie ein seltner baum zum himmel spriesst8.




III

Torniamo al tema della fame. È l’incubo della società del Medio Evo e, ancor più, per le grandi carestie, specie quelle seguite alla Guerra dei trent’anni, del Cinquecento, del Seicento e di buona parte del Settecento. Nessun narratore ne dà una descrizione vivida e atroce come quella di Manzoni al Capo Dodicesimo dei Promessi sposi, giacché nessuno è in grado di accompagnare la descrizione a un’indagine, prima storica, poi filosofica e metafisica, sulle cause della carestia e sul comportamento che l’uomo in conseguenza assume. Nel narrare la rivolta dei forni, il sommo romanziere mette in rilievo un comportamento che poi gli antropologi hanno scientificamente indagato: lo spreco e la stessa distruzione del cibo da parte di una plebe che, mancandone, ne fa la principale ossessione di vita. Abbondanza, abbondanza, Morte agli affamatori!, Viva l’abbondanza!, gridavano nel saccheggiare i forni, nel distruggerli sistematicamente e nel disperdere la farina. È un’altra danza macabra, un rito carnevalesco di morte; e il Manzoni colora la sua visione tragica della Storia con tratti d’ironia.

“Questa poi non è una bella cosa”, disse Renzo tra sé: “se concian così tutti i forni, dove voglion fare il pane? Ne’ pozzi?”
[…]
Veramente, la distruzion de’ frulloni e delle madie, la devastazion de’ forni, e lo scompiglio de’ fornai, non sono i mezzi più spicci per far vivere il pane; ma questa è una di quelle sottigliezze metafisiche, che una moltitudine non ci arriva.


Carissima mi è pure la descrizione della fame nella Cartagine assediata che può leggersi in uno dei più grandi romanzi storici mai creati, la Salambô di Flaubert, e dei mercenarî intrappolati alla fine da Amilcare in una valle senza uscita: gli ostaggi stanno per esser crocifissi ma si buttano su di un piatto di zucchine lesse che Amilcare a bella posta ha lasciato nella tenda.
Chi è ossessionato dalla fame non è in grado di mangiare con misura. Quando può, divora sconsideratamente. La fame, incubo della società, è nel periodo nel quale più spaventa anche oggetto di rappresentazione comica: e si comprende, il voltarla in comico è anche un esorcismo, un rito apotropaico. Il divorare sconsideratamente è un tema fisso del comico sulla fame. L’antichissima maschera osca chiamata Maccus rinasce nell’epoca barocca sotto il nome di Pulcinella; confluiscono in lei altre correnti, onde essa ha qualcosa dell’uccello, come dice il nome, ha qualcosa d’androgino e, come tutte le maschere, un fondo demoniaco. Il dialogo costante di Pulcinella è colla fame e col cibo. In una farsa dell’arcade Carlo Sigismondo Capece, che fu anche poeta per musica e amico di Alessandro Scarlatti, La finta pazza (1719), Pulcinella è un falso medico. Per guarire la finta pazza le prescrive “li maccarune e lu caso co lo zuccaro e la cannella”; e, sollecitato, risponde filosofeggiando aristotelicamente.

PANDOLFO: Li maccaroni son’all’ordine, ma vorrei sapere a che han da servire.
PULCINELLA: Hanno da servire pe figlieta.
DON ALVARO: Los maccarones le han da sanar la frenesia?
PULCINELLA: Che c’entri tu mo, sì tu lo miedico? o songo io?
DON ALVARO: Io, signor, solamente lo pregunto.
PULCINELLA: Che vuoi precontà; tu non te ne rentienne. Saie chello, che dice
Aristotele?
PANDOLFO: Aristotele parla de’ maccaroni?
PULCINELLA: Tu puro vuoie fare lo dottore? e che d’è la materia primma, auto
che li maccarune?
DON ALVARO: Y la forma?
PULCINELLA: E la forma è lo formaggio, che nce se mette ncoppa, che le dà la
sostanza.


Scrive sempre il Lombardi Satriani:

La fame di Pulcinella è, innanzitutto, fame fisiologica, vuoto di viscere, effetto e segno di sottoalimentazione e di indigenza, connotabile sociologicamente come fame di plebi malnutrite e di poveri macilenti. Fame che ha plasmato il suo stesso corpo, imprimendo le sue stimmate nella sua voce stentata di pitocco diseredato e nel suo viso scavato di popolano denutrito. Non a caso Pulcinella è diventato per lunghi periodi – e non senza qualche fondamento – l’emblema del sottoproletariato napoletano eternamente insoddisfatto.


Una farsa del Pulcinella ottocentesco Francesco De Petris, Il terribile Bruno Barba di capra con Pulcinella guerriero senza combattere, pelatore di barba, e destinato a mangiare zolfo, pece greca, e trementina, 1824, fa pronunciare alla maschera il suo stesso emblema, che da fisicissimo si fa metafisico.

De tre cose io me so tremmato, e mo tutte ste cose comme a tropea de Maggio mme so cadute ncopp’a la noce de lo cuollo: de la famme, de lo stà diuno, e de restà senza magnare.


La fame di Pulcinella è perpetua. Nella farsa di Francesco Cerlone La donna serpente, lo dice scherzando su Virgilio.

Ora io vorria trovà chill’animale, ca scrisse famma vola. Addò vola, si nun se parte maie da cuorpo a me?


Sempre il grande Cerlone, ne Il vassallo fedele, fa una rappresentazione dell’eccesso che, per esser comica, non è meno aspirazione onirica di un plebeo napoletano.

PULCINELLA: Mangio poco.
INFANTA: Perché?
PULCINELLA: Ca è naturale: da iere matino che tengo ncuorpo? Na panella, e no tornese de caso cuotto, no ruotolo e miezo de macarune, quatto costate de ufera arraganate, no lacierto mbottonato da tre rotola e meza, na matrice, na mbolletta, e no capezzale sano sano, quatto codarine, dudece padiate, e na pezzotta de caso de Calabria, tre panellucce de monezione, e no perettiello de 12 caraffe.
INFANTA: E la sera?
PULCINELLA: Jersera passaie lieggio, ca so tanto gentile de compressione, che n’alleggeresco manco na mostaccera: mme mangiaie tre mazze de nzalata sarvaggiola, no pede de vacca, e no musso fellato, co sale, acito e menta, no fecato de vacca fritto a fella, na pezzella co l’uoglio, arecheta e aglie de cinco rotola de pasta bruna; no miezo presutto, e decedotto spuonnele arrostute; pe sopratavole po (vi lo genio) trenta puparuole fritte, due quarte d’accie a la romana, otto molignane a la scapece, na noce, no casocavallo, e n’auto perettiello d’amarena.


Il mangiare immoderato e il cibo diventato oggetto mitico nascono dall’incubo della fame; si fanno poi un tipico elemento di decadenza civile, in ispecie nelle mani degli uomini volgari e di recente ricchezza: quelli che si chiamano i parvenus, e meglio, a Napoli, i pezzienti sagliuti. Si usa parlar di pasti luculliani; Lucullo, grande condottiero e grande uomo di cultura, possessore di una biblioteca filosofica messa a disposizione di chi volesse studiare, nonché di antica nobiltà plebea, riceveva con raffinatezza: ma per Plutarco (Vita di Lucullo, XL) il fasto di cattivo gusto era già ai suoi conviti, dispendiosissimi.

Le cene quotidiane da lui offerte erano sfarzose come quelle che sogliono dare gli uomini arricchiti di recente; non tanto per i tappeti di porpora, per le coppe gemmate e per l’intervento di cori e di attori comici, quanto per l’apparecchio di ogni specie di vivande, tutte confezionate squisitamente: per cui era grandemente ammirato dalle persone umili e volgari.


Lo spirito romano aveva tradito e obliato la repubblicana sobrietà: le conquiste e la ricchezza conseguite allo stato di potenza imperiale avevan diffuso la tabe del lusso. La più volgare manifestazione del lusso è la trasformazione del cibo in opera d’un’arte decadente, sovraccarica; e l’esibizione del denaro inutilmente profuso era parte di questo culto. Marco Gavio Apicio, doviziosissimo, è forse l’autore del trattato di cucina De re coquinaria che, giuntoci in redazioni della tarda epoca imperiale, informa sui banchetti dei ricchi volgari. Leggiamo quel che scrive di lui e altri suoi pari Seneca nella Consolatio ad Helviam matrem: il caso di Apicio è solo un aneddoto in un quadro fosco e grandioso d’una società della quale il culto per il cibo è un’intossicazione spirituale profonda.

Bene ergo exilium tulit Marcellus nec quicquam in animo eius mutavit loci mutatio, quamvis eam paupertas sequeretur; in qua nihil mali esse, quisquis modo nondum pervenit in insaniam omnia subvertentis avaritiae atque luxuriae intellegit. Quantulum enim est quod in tutelam hominis necessarium est! et cui deesse hoc potest ullam modo virtutem habenti? Quod ad me pertinet intellego me non opes sed occupationes perdidisse. Corporis exigua desideria sunt: frigus sommoveri vult, alimentis famem ac sitim extinguere; quicquid extra concupiscitur, vitiis non usibus laboratur. Non est necesse omne perscrutari profundum nec strage animalium ventrem onerare nec conchylia ultimi maris ex ignoto litore eruere: dii istos deaeque perdant quorum luxuria tam invidiosi imperii fines transcendit! Ultra Phasin capi volunt quod ambitiosam popinam instruat, nec piget a Parthis, quibus nondum poenas repetimus, aves petere. Undique convehunt omnia nota fastidienti gulae; quod dissolutus deliciis stomachus vix admittat ab ultimo portatur oceano; vomunt ut edant, edunt ut vomant, et epulas quas toto orbe conquirunt nec conquoquere dignantur. Ista si quis despicit, quid illi paupertas nocet? Si quis concupiscit, illi paupertas etiam prodest; invitus enim sanatur et, si remedia coactus quidem recipit, interim certe, dum non potest, illa nolenti similis est. C. Caesar, quem mihi videtur rerum natura edidisse ut ostenderet quid summa vitia in summa fortuna possent, centiens sextertio cenavit uno die; et in hoc omnium adiutus ingenio vix tamen invenit quomodo trium provinciarum tributum una coena fieret. O miserabiles, quorum palatum nisi ad pretiosos cibos non excitatur! Pretiosos autem non eximius sapor aut aliqua faucium dulcedo sed raritas et difficultas parandi facit. Alioqui, si ad sanam illis mentem placeat reverti quid opus est tot artibus ventri servientibus? quid mercaturis? quid vastatione silvarum? quid profundi perscrutatione? Passim iacent alimenta quae rerum natura omnibus locis disposuit; sed haec velut caeci transeunt et omnes regiones pervagantur, maria traiciunt et, cum famem exiguo possint sedare, magno inritant. Libet dicere: quid deducitis naves? Quid manus et adversus feras et adversus homines armatis? Quid tanto tumultu discurritis? Quid opes opibus adgeritis? Non vultis cogitare quam parva vobis corpora sint? Nonne furor et ultimus mentium error est, cum tam exiguum capias, capere multum? Licet itaque augeatis census, promoveatis fines, numquam tamen corpora vestra laxabitis, Cum bene cesserit negotiatio, multum militia rettulerit, cum indagati undique cibi coierint, non habebitis ubi istos apparatus vestros conlocetis. Quid tam multa conquiritis? Scilicet maiores nostri, quorum virtus etiamnunc vitia nostra sustentat, infelices erant, qui sibi manu sua parabant cibum, quibus terra cubile erat, quorum tecta nondum auro fulgebant, quorum templa nondum gemmis nitebant; itaque tunc per fictiles deos religiose iurabatur: qui illos invocaverant, ad hostem morituri, ne fallerent, redibant. Scilicet minus beate vivebat dictator noster qui Samnitium legatos audit cum vilissimum cibum in foco ipsa sua manu versaret, illa qua iam saepe hostem percusserat laureamque in Capitolini Iovis gremio reposuerat, quam Apicius nostra memoria vixit, qui in ea urbe ex qua aliquando philosophi velut corruptores iuventutis abire iussi sunt scientiam popinae professus disciplina sua seaculum infecit. Cuius exitium nosse operae pretium est. Cum sestertium milliens in culinam coniecisset, cum tot congiaria principum et ingens Capitolii vectigal singulis comisationibus exsorpsisset, aere alieno oppressus rationes suas tunc pimum coactus inspexit superfuturum sibi sestertium centiens computavit et velut in ultima fame victurus si in sestertio centiens vixisset, veneno vitam finivit. Quanta luxuria erat cui centiens sestertium egestas fuit! i nunc et puta pecuniae modum ad rem pertinere, non animi. Sestertium centiens aliquis extimuit et quod alii voto petunt veneno fugit. Illi vero tam praae mentis homini ultima potio saluberrima fuit: tunc venena edebat bibebatque cum inmensis epulis non delectaretur tantum sed gloraretur, cum vitia sua ostentaret, cum civitatem in luxuriam suam converteret, cum iuventutem ad imitationem sui sollicitaret etiam sine malis exemplis per se docilem9.


Vomunt ut edant, edunt ut vomant: la dissolutezza, che faceva del cibo un fine in sé, portava a vomitare artificiosamente durante i conviti perché si riprendesse a mangiare a stomaco vuoto: lo sappiamo dalle fonti.
In Hérodias, il terzo dei Trois contes, l’ultima sua opera apparsa in vita, Flaubert finge che alla festa di Erode Antipa a Macheronte partecipi col padre, proconsole della Siria, l’adolescente Aulo Vitellio. Suetonio vuole che fosse fra gli amanti di Tiberio; è nota la sua proverbiale ingordigia durante il suo breve principato.
Mais Aulus était penché au bord du triclinium, le front en sueur, le visage vert, les poings sur l’estomac.
Les Sadducens feignirent un grand émoi; – le lendemain, la sacrificature leur fut rendue; – Antipas étalait du desespoir; Vitellius demeurait impassible. Ses angoisses étaient pourtant violentes; avec son fils il perdait sa fortune.

Aulus n’avait pas fini de se faire vomir, qu’il voulut remanger.
“Qu’on me donne de la râpture de marbre, du schiste de Naxos, de l’eau de mer, n’importe quoi! Si je prenais un bain?”
Il croqua de le neige, puis, ayant balancé entre une terrine de Commagène et des merles roses, se décida pour des courges au miel. L’Asiatique le contemplait, cette faculté d’engloutissement dénotant un être prodigieux et d’une race superieure10.


Il passo, e quello che adesso leggiamo, è stato ispirato a Flaubert, oltre che dal Dialogo di Seneca, dalla cena di Trimalcione del Satyricon e dalla Res coquinaria di Apicio. La Salammbô si apre col banchetto che il senato cartaginese, assente Amilcare, offre ai mercenarî, che hanno combattuto con lui in Sicilia, nella villa del condottiero a Megara. Flaubert è addirittura ossessionato dalla precisione storica, onde il banchetto è nelle sue portate minuziosamente ricostruito grazie alle fonti.

Les cuisines d’Hamilcar n’étant pas suffisantes, le Conseil leur avait envoyé des esclaves, de la vaisselle, des lits; et l’on voyat au milieu du jardin, comme sur un champ de bataille quand on brûle les morts, de grands feux clairs ou rôtissaient des boeufs. Les pains saupoudrés d’anis alternaient avec les gros fromages plus lourds que des disques, et les cratères pleins de vin, et les canthares pleins d’eau auprès des corbeilles en filigraine d’or qui contenaient des fleurs. La joie de pouvoir enfin se gorger à l’aise dilatait tous les yeux: çà et là, les chansons commençaient.
D’abord on leur servit des oiseaux à la sauce verte, dans des assiettes d’argile rouge rehaussée de dessins noirs, puis toutes les espèces de coquillages que l’on ramasse sur les côtes puniques, des bouilles de froment, de fève et d’orge, et des escargots au cumin, sur des plates d’ambre jaune.
Ensuite les tables furent couvertes de viandes: antilopes avec leurs cornes, paons avec leurs plumes, moutons entiers cuits au vin doux, gigots de chamelles et de buffles, hérissons au garum, cigales frites et loirs confits. Dans des gamelles en bois de Tamrapanni flottaient, au milieu du safran, de grands morceaux de graisse. Tout débordait de saumure, de truffes et d’assa-fetida. Les pyramides de fruits s’éboulaient sur les gâteaux de miel, et l’on avait pas oublié quelques-uns de ces petits chiens à gros ventre et à soies roses que l’on engrassait avec du marc d’olives, mets carthagineois en abomination aux autres peuples. La surprise des nourritures nouvelles excitait la cupidité des estomacs. Les Gaulois aux longs cheveux retroussés sur le sommet de la tête, s’arrachaient les pastèques et les limons qu’ils croquaient avec l’écorce. Des Nègres n’ayant jamais vu de langoustes se déchiraient le visage à leur piquants rouges. Mais les Grecs rasés, plus blancs que des marbres, jétaient derrière eux les éplunchures de leur assiette, tandis que des pâtres du Brutium, vêtus de peaux de loups, dévoraient silencieusement, le visage dans leur portion.
La nuit tombait. On retira le velarium étalé sur l’avenue de cyprès et l’on apporta des flambeaux.
Les lueurs vacillantes du pétrole qui brûlait dans les vases de porphyre effrayèrent, au haut des cèdres, les singes consacrés à la lune. Ils poussèrent des cris, ce qui mis les soldats en gaieté.
Des flammes oblongues tremblaient sur les cuirasses d’airain. Toutes sortes de scintillements jaillissaient des plats incrustés de pierres précieuses. Les cratères, à bordure de miroirs convexes, multipliaient l’image élargie des choses; les soldats se pressant autour s’y regardaient avec ébahissement et grimaçaient pour se fare rire. Ils se lançaient, pas-dessus les tables, les escabeaux d’ivoire et les spatules d’or. Ils avalaient à pleine gorge tous les vins grecs qui sont dans les outres, les vins de Campanie enfermés dans des amphores, les vins des Cantabres que l’on apporte dans des tonneaux, et les vins de jujubier, de cinnamone et de lotus. Il y en avait des flauques par terre ou l’on glissait. La fumée des viandes montait dans les feuillages avec la vapeur des haleines. On entendait à la fois le claquement des mâchoires, le bruit des paroles, des chansons, des coupes, le fracas des vases campaniens qui s’écroulaient en mille morceaux, ou le son limpide d’un grand plat d’argent11.


Abituati alla fame, i mercenarî mangiano e bevono smodatamente. E, gonfi di cibo e di vino, si danno al terribile saccheggio.
Il dispendio e la supervalutazione del cibo presso i parvenus del tardo-Antico prendono un ulteriore aspetto: il travestimento di un cibo in un altro, o la farcitura inattesa e contro natura con creature vive, animali o nani o mimi, di un piatto cucinato. È una sorta di ingegno nello stile dell’Arcimboldi: e ne inferiamo che, se il Barocco è una precisa epoca della storia dell’arte, il Barocco quale categoria atemporale esiste già in epoca imperiale, come peraltro gli storici della letteratura latina insegnano.
Leggiamo qualche passo di quel frammento del Satyricon sopravvissuto sotto il nome di Cena di Trimalcione.

Allata est tamen gustatio valde lauta; nam iam omnes discubuerant praeter ipsum Trimalchionem, cui locus novo more primus servabatur. Ceterum in promulsidari asellus erat Corinthius cum bisaccio positus, qui habebat olivas in altera parte albas, in altera nigras. Tegebant asellum duae lances, in quarum marginibus nomen Trimalchionis inscriptum erat et argenti pondus. Ponticuli etiam ferruminati sustinebant glires mellea c papavere sparsos. Fuerunt et tomacula supra craticulam argenteam ferventia posita et infra craticulam Syriaca pruna cum granis punici mali12.
[…]
Interim dum ille omnium textorum dicta inter lusum consumit, gustantibus adhuc nobis repositorium allatum est cum corbe, in quo gallina erat lignea patentibus in orbem alis, quales esse solent quae incubant ova. Accessere continuo due servi et symphonia strepente scrutari paleam coeperunt, erutaque subinde pavonina ova divisere convivis. Convertit ad hanc scaenam Trimalchio vultum, et “Amici, – ait, – pavonis ova gallinae iussi supponi. Et mehercules timeo ne iam concepti sint. Temptemus tamen, si adhuc sorbilia sunt. Sorberi possunt.” Accipimus nos cochlearia non minus selibras pendentia, ovaque ex farina pingui figurata pertundimus. Ego quidem paene proieci partem meam, nam videbatur mihi iam in pullum coisse. Deinde ut audivi veterem convivam: “Hic nescio quid boni debet esse”, persecutus putamen manu pinguissimam ficedulam inveni piperato vitello circumdatam13.


Segue una portata “non grandiosa certo come ce l’aspettavamo, ma il suo aspetto bizzarro attirò l’attenzione generale. Si trattava di un’alzata rotonda, che aveva disposti in giro i dodici segni, su ciascuno dei quali l’imbanditore aveva collocato quel cibo che meglio si adattava al soggetto”.

Ed ecco l’apoteosi del travestimento.

Haec ut dixit, ad symphoniam quattuor tripudiantes procurrerunt superioremque partem repositorii abstulerunt. Quo facto videmus infra altilia et sumina leporemque in medio pinnis subornatum, ut Pegasus videretur. Notavimus etiam circa angulos repositorii Marsyas quattuor, ex quorum utriculis garum piperatum currebat super pisces, qui tanquam in euripo natabant. Damus omnes plausum a familia inceptum et res electissimas ridentes aggredimur. Non minus et Trimalchio eiusmodi methodio laetus “Carpe” inquit. Processit statim scissor, et ad symphoniam gesticulatus ita laceravit obsonium, ut putares essedarium hydraule cantante pugnare. Ingerebat nihilo minus Trimalchio lentissima voce: “Carpe, Carpe”. Ego suspicatus ad aliquam urbanitatem totiens iteratam vocere pertinere, non erubui eum qui supra me accumbebat, hoc ipsum interrogare. At ille, qui saepius eiusomodi ludos spectaverat, “Vides illum – inquit – qui obsonium carpit: Carpus vocatur. Ita quotiescunque dicit ‘Carpe’, eodem verbo et vocat et imperat14.


Ci resterà per sempre la curiosità di sapere come fosse la musica che accompagnava il convito.



IV


Nella vita, nel lessico, e nell’immaginativa, di Pulcinella, il cibo e il sesso si equivalgono. O, per dirla con linguaggio filosofico, la categoria del cibo sussume quella del sesso. Il sesso Pulcinella lo mangia; e, in caso di obbligo d’una scelta esclusiva fra i due, opta per il cibo.
La maschera si nutre del tipico cibo del popolano napoletano; soprattutto la pasta; e della pasta, soprattutto i maccheroni. Infinite immagini lo raffigurano che si cala in bocca colle mani un fascio di maccheroni; e questa è la stessa immagiune del popolano napoletano quando può mangiare: tanto da esser immortalato, il popolano, nelle figure dei presepî settecenteschi e ottocenteschi. Il mirabile presepe Cuciniello e altre figure presepiali allocate presso il museo della napoletana Certosa contengono alcuni mangiamaccheroni, uno dei quali è una vera opera d’arte. E Ferdinando IV, che dalla plebe napoletana continuò a esser amato, era soprannominato Tata Maccarune; nelle Mémoires secrets et critiques des cours Giuseppe Gorani asserisce che durante l’Opera al San Carlo il Re si mostrava tenendo in mano un piatto di maccheroni; “e facendo tutti i lazzi di Pulcinella”, continua il viaggiatore, in questo particolare per nulla credibile, anche per il suo aver aderito alla Rivoluzione francese ed esser divenuto citoyen.
Cito ancora del Lombardi Satriani una finissima osservazione: “Pulcinella nasce nel vicereame di Napoli sottoposto agli spagnoli negli stessi anni in cui nella Spagna degli Asburgo vede la luce per la prima volta sulle scene, intorno al 1620, Don Giovanni Tenorio.”
Tutti sanno che la vicenda dell’ateista fulminato, nata dal teatro gesuitico d’esortazione devota attraverso esempi che attraessero il popolo divertendo, ha avuto varie incarnazioni teatrali, che da Tirso passano per Molière e Goldoni. Non riesco a essere convinto che quello di Don Giovanni sia un mito archetipico e che il cavaliere libertino sia una figura mitica profonda come Orfeo, Ulisse, Enea15. Don Giovanni è diventato uno dei miti dell’immaginativa europea, poi mondiale, a causa del valore del capolavoro di Mozart. Il Don Giovanni di Mozart ha addirittura modificato il rapporto dell’uomo europeo con l’opera d’arte, o almeno con la musica. Ma non è occasione di discorsi così alati; ne parliamo solo in rapporto al soggetto dei nostri incontri.
Prima di Mozart il teatro musicale già s’era dedicato al tema del libertino che, rifiutandosi di pentirsi – ossia rifiutandosi di riconoscere l’esistenza di Dio – viene condotto all’inferno dal fantasma d’un uomo che aveva ucciso e che per sfregio aveva invitato a cena. Tra queste ricordiamo Il convitato di pietra di Giacomo Tritto (1783), un ottimo esponente della Scuola Napoletana. Il convitato di pietra è assai interessante perché il servo di Don Giovanni è Pulcinella; questi si esprime in pretta lingua napoletana e viene dal padrone premiato con maccheroni, che mangia in scena. Al momento che gli appare il Commendatore per attuare la condanna alla dannazione eterna decretata dal Cielo, Don Giovanni è seduto a una “tavola a lutto con serpi e altri oggetti di spavento”: ne mangia e vorrebbe costringere anche Pulcinella a mangiarne. Giovambattista Lorenzi, il poeta napoletano autore del testo musicato da Tritto, manifesta coscienza mitica profonda giacché finge che Don Giovanni si pasca del pasto dei morti, facendogli violare un interdetto rituale.
Fra i temi del Libretto di Lorenzo Da Ponte per Mozart importante è il rapporto dei personaggi col cibo. Il servo di Don Giovanni, Leporello, è una reincarnazione civile quanto a lessico, ma moralmente abbietta, di Pulcinella: anch’egli è posseduto da fame cronica. Uno degl’intrecci della vicenda è il tentativo del protagonista di sedurre una contadina le nozze della quale si svolgono nella giornata deputata; Don Giovanni trasporta la festa dei paesani nel suo palazzo e incarica Leporello di rimpinzarli in ogni modo:

Presto, va’ con costor: nel mio palazzo
Conducili sul fatto; ordina ch’abbiano
Cioccolata, caffè, vini, presciutti;

Non è fuor di luogo ricordare che ancora nel Settecento il caffè era bevanda costosa e ricercata, alla portata solo dei ricchi; si credeva che, oltre che un eccitante, fosse un afrodisiaco: e una delle più deliziose Cantate profane di Bach, la Cantata del caffè, è dedicata alla moda per l’equivalente settecentesco della cocaina, giunta anche nella protestante Sassonia.
Prima del Finale del primo atto Don Giovanni ha divisato di ubriacare tutti i contadini così da esser libero di approfittare della sposina Zerlina – che gli ha già ceduto – e delle altre “contadinotte”. E canta una vorticosa Aria bacchica la prima quartina della quale recita:

Fin ch’han dal vino
Calda la testa,
Una gran festa
Fa’ preparar.


Il quadro finale del secondo atto è, appunto, nella sala da pranzo. Don Giovanni cena dopo aver invitato la statua del Commendatore a cenare con lui. La cena del libertino è un’ampia scena nella quale “numeri” comici derivati dalla Commedia dell’Arte si affiancano a grandi raffinatezze musicali: l’orchestra del nobile gli esegue una scelta di Arie d’Opera in voga nel 1788, citate da Mozart, e una dello stesso Maestro. Il vino bevuto dal personaggio è il nostro marzimino. Riconosciamo Pulcinella nel “numero” comico che ora vediamo. Leporello ha tanto appetito, e la fame cresce vedendo come mangia il padrone, che nel servirlo ruba un boccone dal piatto.

LEPORELLO (a parte)
Ah che barbaro appetito!
Che bocconi da gigante!
Mi par proprio di svenir.
DON GIOVANNI (a parte)
Nel vedere i miei bocconi
Gli par proprio di svenir.
Piatto!
LEPORELLO
Servo.
Evvivano i “Litiganti”!
DON GIOVANNI
Versa il vino.
(Leporello versa il vino nel bicchiere)
Eccellente marzimino.
Leporello cangia il piatto a Don Giovanni e mangia in fretta.
LEPORELLO (a parte)
Questo pezzo di fagiano
Piano piano vo’ inghiottir.
DON GIOVANNI (a parte)
Sta mangiando quel marrano;
Fingerò di non capir.
LEPORELLO
Questa poi la conosco pur troppo …
DON GIOVANNI
(lo chiama senza guardarlo)
Leporello!
LEPORELLO
(risponde con la bocca piena)
Padron mio …
DON GIOVANNI
Parla schietto, mascalzone!
LEPORELLO
Non mi lascia una flussione
Le parole proferir.
DON GIOVANNI
Mentre io mangio, fischia un poco.
LEPORELLO
Non so far!
DON GIOVANNI
(s’accorge che sta mangiando)
Cos’è? –
LEPORELLO
Scusate;
Sì eccellente è il vostro cuoco
Che lo volli anch’io provar.


Ma appare lo spettro del Commendatore. Dalla musica emana il brivido metafisico, il soffio della morte e del nulla. Don Giovanni, eroico, non si spaventa; e ordina che si porti la cena anche per il Commendatore. Questi risponde con una formula terribile; la musica della sua melodia, facendo ascoltare le dodici note della scala temperata, è così aspra e dissonante che noi cogliamo un’austerità ultraterrena; e forse addirittura un’ultraterrena tristezza. Chissà che il Commendatore, sebbene strumento del Cielo per punire il libertino, non sia un’anima dannata pur egli: a insinuarlo è la musica, quasi allontanantesi dal significato stretto del testo.

Non si pasce di cibo mortale
Chi si pasce di cibo celeste.
Altre cure più gravi di queste
Altra brama quaggiù mi guidò.

Certo è che, da questa pagina, l’ethos del Re minore è diventato quello infernale.
Un’altra reincarnazione di Pulcinella è Sarchiapone. Mutuato il nome dalla diavoleria comica, il personaggio, gobbo e allocco, e dotato d’una crudeltà che ricorda le origini arcaicissime della maschera, partecipa alla Cantata dei Pastori. Quest’opera si deve al gesuita secentesco palermitano e divenuto napoletano Andrea Perrucci, autore, tra l’altro, di un Convitato di pietra; e librettista d’opera, oltre che poeta. La Cantata è il più fortunato esempio di teatro gesuitico, quello principiato per le vie delle città, col fine di evangelizzare divertendo un popolo, e una plebe, rimasti fondamentalmente pagani. Il Verbo humanato è il tema della rappresentazione teatrale natalizia, colle peregrinazioni di Maria e Giuseppe alla ricerca di un ricovero per dar luce al Salvatore, e le potenze dell’Inferno che cercano d’impedire l’incarnazione, o almeno il parto, o almeno di disturbar quanto possibile tale parto. La coppia santa, l’Angelo che li accompagna, il mondo infernale, si esprimono in pura favella tosca e stile aulico, pieno di latinismi. La geniale trovata gesuitica consiste nel mescolare alla vicenda due personaggi comici che, improvvisando sopra uno schema dato, parlano in napoletano pretto: due maschere arieggianti la Commedia dell’Arte, Razzullo e Sarchiapone. I due sono popolani napoletani catapultati nella Palestina di Augusto. E che Sarchiapone sia Pulcinella vediamo anche da ciò: come il suo compagno, la sua ossessione è la fame. Un “numero” delizioso è la taverna della quale il taverniere è uno dei diavoli. Noi assistiamo ora a un altro “numero”, che deriva dall’allestimento fatto del testo di Perrucci da Roberto De Simone, e il frammento proiettato ha quarant’anni. In scena due grandi attori, Peppe Barra, il quale ogni anno si fa promotore a Natale dell’allestimento della Cantata e interpreta Razzullo, e Giovanni Mauriello. Razzullo è riuscito a rubare un canestro di cibo destinato a un pastorello; Sarchiapone, suo sodale, complice e rivale, vorrebbe divorarne lui il contenuto, e Razzullo lo beffa col giuoco “del Paradiso e dell’Inferno”. I due ultramondi trasformati in espediente per cantare la fame.
Restiamo in ambito barocco: del Barocco spagnuolo: per una sua viva rappresentazione musicale, La forza del destino di Verdi. Ricordiamo questo capolavoro là ove tratta di cibo e di fame. Siamo nell’ambito di un gran teatro del mondo: quindi convivono lo spirito tragico e quello comico: e il comico in particolare raffigurazione realistica, di vita quotidiana e di umili. Il secondo atto principia con una scena d’osteria; molti dei personaggi vi convengono, e Verdi si diverte e ci diverte mettendo in scena una rustica cena servita a mulattieri, viaggiatori, pellegrini. Uno dei personaggi è un nobile, don Carlo di Vargas: per inseguire e uccidere la sorella che ha macchiato l’onore della famiglia coll’unirsi a un uomo di “abbietta origine”, gira travestito da baccelliere dell’università di Salamanca: e infatti cita un verso del Primo Libro dell’Eneide. Osserviamo il realistico frammento del convito nella poesia di Francesco Maria Piave. La musica è piena di popolaresca energia ed è percorsa da movenze di danza, quella che anche in Spagna sempre accompagna la vita della plebe.

ALCADE
La cena è pronta… (sedendosi alla mensa)
TUTTI (prendendo posto presso la tavola)
A cena, a cena.
STUDENTE (frattanto sul davanti dice)
(Ricerco invan la suora e il seduttore … Perfidi!)
CORO (all’Alcade)
Voi la mensa benedite.
ALCADE
Può farlo il licenziato.
STUDENTE
Di buon grado.
In nomine Patris, et Filii, et Spiritus Sancti.
TUTTI (sedendo)
Amen.
LEONORA (presentandosi alla porta della stanza a destra, che terrà socchiusa)
(Che vedo! … Mio fratello! …)
(Si ritira)
(L’Ostessa avrà già distribuito il riso e siede cogli altri. In seguito è servito altro piatto.
Trabuco è in disparte, sempre appoggiato al suo basto.
)
ALCADE (assaggiando)
Buono.
STUDENTE (mangiando)
Eccellente.
MULATTIERI
Par che dica mangiami.
STUDENTE (all’Ostessa)
Tu das epulis accumbere Divum.
ALCADE
Non sa il latino, ma cucina bene.
STUDENTE
Viva l’Ostessa!
TUTTI
Evviva!


Il quarto atto principia con un’altra scena vivamente realistica. Il più straordinario fra i personaggi della Forza del destino è fra Melitone, un frate maligno, imperterrito spernitore dell’essere umano, ma pieno d’energia e coraggio. Colle sue particolarissime inflessioni drammatico-musicali, Melitone è già un “cartone” di alcuni aspetti del Iago dell’Otello e soprattutto di Falstaff. Egli deve distribuire la minestra ai poveri, che immaginiamo vittima di una delle ricorrenti carestie: l’opera si finge “intorno alla metà del XVIII secolo”. Di fronte alla loro fame, alle loro suppliche, alle loro proteste, perde la pazienza e, alla fine, recita la didascalia, fa rotolare la caldaia con un calcio. Osserviamo l’inizio della scena.

CORO
Fate la carità,
È un’ora che aspettiamo! …
Andarcene dobbiamo,
Fate la carità.

Detti e Fra Melitone, che viene dalla destra, coperto il ventre d’ampio grembiule bianco, ed aiutato da altro laico, porta una grande caldaia a due manichi, che depongono nel centro; il laico riparte.

MELITONE
Che? Siete all’osteria? …
Quieti … (Incomincia a distribuire col ramaiuolo la minestra)
DONNE
Qui, presso a me.
VECCHI
Quante porzioni a loro! …
ALTRI
Tutti vorrian per sé.
TUTTI
N’ebbe già tre Maria! …
UNA (A Melitone)
Quattro a me …
TUTTI
Quattro a lei!
DETTA
Sì, perché ho sei figliuoli …
MELITONE
Perché ne avete sei?
DETTA
Perché li mandò Iddio …
MELITONE
Sì, sì Dio … non li avreste
Se al par di me voi pure la schiena percoteste
Con aspra disciplina, e più le notti intere
Passaste recitando rosari e Miserere …
GUARDIANO
Fratel …
MELITONE
Ma tai pezzenti son di fecondità
Davvero spaventosa.



V


Il teatro in lingua napoletana fin qui osservato è plebeo e arcaico: Pulcinella, La Cantata dei Pastori. Nella seconda metà dell’Ottocento Eduardo Scarpetta lo fa diventare borghese. Eppure uno dei suoi capolavori, Miseria e nobiltà, è incentrato attorno alla fame, ricorrente incubo di due famiglie, costrette alla coabitazione, che appartengono forse alla infima borghesia più che non siano plebee, ma che la disgrazia plebee fa ridiventare.
Il primo atto si svolge con un solo protagonista, ossessivo, la fame. I personaggi non mangiano da tempo, e l’idea del cibo è un sogno e un mito. A tal punto è un mito che un “numero” geniale è il seguente, a metà dell’atto. Uno dei due capo-famiglia mette in mano all’altro un suo vecchio pastrano e gli dà l’incarico di andare dal bottegaio per ottenere, in cambio di esso, un po’ di cibo. All’atto di consegnarglielo incomincia a dargli prescrizioni che presupporrebbero dovizia e addirittura lusso: che non prenda pasta grossa (non la digerirebbe!), che pigli solo salsicce tagliate a punta di coltello in sua presenza, che la mozzarella sia fresca, che il vino sia davvero frizzante … Assistiamo alla scena nell’interpretazione di due grandi attori, Enzo Cannavale e Rino Marcelli. L’allestimento, storico, è del napoletano teatro Sannazaro, e la registrazione è stata fatta durante una recita.
Il testo di Scarpetta, con varianti e adattamenti, è divenuto un sublime film di Mario Mattoli nel quale i due ruoli sono recitati da Totò e Enzo Turco. E qui Totò aggiunge a Scarpetta una battuta: quando Pasquale è arrivato a prescrivere che, dopo aver preso tutto il cibo e il vino ordinati, Felice si facesse dare una lira di resto, Felice-Totò esclama: “Ma ti pensassi forse che questo è il cappotto di Napoleone?”
Nel secondo atto i miserrimi si trovano a casa di un ricco di recentissima ricchezza: debbono fingersi i nobili parenti del marchesino Eugenio, innamorato di Gemma, la figlia di questo ex cuoco, Gaetano Semmolone. (Altra sublime battuta aggiunta da Totò: quando, nel primo atto, il marchesino parla di Semmolone, Totò, con espressione sognante: “Cuoco: che bella parola!”). Affettano contegno sprezzante e albagia: ma quando Semmolone fa offrire i gelati, non riescono a contenerli e si buttano sulle coppe, che poi leccano minuziosamente, con l’avidità nascente da fame atavica. Or avviene che un giovanotto ricco, innamorato della figlia di Pasquale, faccia mandare da una trattoria un ricco pranzo nella miserabile abitazione delle due famiglie. È il finale del primo atto. La scena è affatto muta. Le due famiglie seggono sconsolate quando d’improvviso, dalla porta restata aperta, entrano due facchini e due cuochi che dalle sporte estraggono tovaglie, vassoi di cibo e bottiglie e li poggiano in silenzio sulla tavola. Dalla pantomina ci accorgiamo che i personaggi, seduti in cerchio, dapprima credono a un miraggio causato dalla fame. Quando s’avvedono trattarsi di realtà, in silenzio s’avvicinano alla tavola dandosi un’attitudine d’indifferenza, facendo strisciare sul pavimento la seggiola e facendo con essa saltelli: indi, d’improvviso, danno l’assalto al ruoto di maccheroni, che stringono con le mani e portano in bocca giusta la secolare immagine del plebeo mangiamaccheroni dei presepî. La brevissima scena con Totò – ricordiamo che quest’anno cadono i cinquant’anni dalla morte del sommo attore – è uno dei capolavori della storia del cinema. E di nuovo ci troviamo di fronte a quest’immagine eterna: il cibo come mito metafisico e fisicissimo.



VI


Il cibo è dunque in sé divino perché conserva e tramanda la vita. Il vino è del cibo la parte più divina perché consente all’uomo di gioire e nell’ebrezza andare oltre se stesso. Onde Dioniso è un grande Dio e chi, irreligiosamente, non lo rispetta è destinato alla maledizione: ecco il mito delle Baccanti di Euripide con l’empio Penteo.
Dulce periculum est,

o Lenaee, sequi deum
cingentem viridi tempora pampino.

canta Orazio in un Carme (III, 25) fra le sublimi composizioni in onore di Bacco. Il sommo venosino celebra il Dio e il suo frutto: anch’egli tanto fisicamente, per la gioia di un buon vino nella breve e incerta vita nostra, sia metafisicamente. Il suo insegnamento mette capo sempre alla moderazione: anche nel culto dionisiaco. Dunque col suo verso complesso ed eticamente insuperabile (I, 18) mi è caro chiudere il nostro excursus.

Nullam, Vare, sacra vite prius severis arborem
circa mite solum Tiburis et moenia Catili;
siccis omnia nam dura deus proposuit, neque
mordaces aliter diffugiunt sollicitudines.
quis post vina gravem militiam aut pauperiem crepat?
quis non te potius, Bacche pater, teque, decens Venus?
ac ne quis modicis transiliat munera Liberi,
Centaurea monet cum Lapithis rixa super mero
debellata, monet Sithoniis non levis Euhius,
cum fas atque nefas exiguo fine libidinum
discernunt avidi. non ego te, candide Bassareu,
invitum quatiam nec variis obsita frondibus
sub divum rapiam. saeva tene cum Berecyntio
cornu tympana, quae subsequitur caecus Amor sui
et tollens vacuum plus nimio Gloria verticem
arcanique Fides prodiga, perlucidior vitro16.









NOTE
1 Verisimilmente: Empedocle, frammento 31 Diels-Kranz.^
2 Plutarco, Del mangiare carne. Trattati sugli animali, a cura di Dario Del Corno, traduzione di Donatella Magini, Milano, Adelphi, 2001.^
3 Odissea, Libro XI, a cura di Alfred Heubeck, traduzione di G. Aurelio Privitera, Fondazione Lorenzo Valla, Milano, Mondadori, 1983.^
4 Piero Camporesi, Il pane selvaggio, seconda edizione, Milano, Garzanti, 2004, pag. 46. Di questo grande Autore si vedano, fra le tante, alcune opere relative al nostro tema: sul sangue, Il sugo della vita, da ultimo Milano, Il Saggiatore, 2017; sulla fame, Il paese della fame, Bologna, Il Mulino, 1978; e sul caffè – tema che tocco infra –, Il brodo indiano: edonismo ed esotismo nel Settecento, Milano, Garzanti, 1989. Sul tema del sangue come alimento eletto, atto anche a ringiovanire, l’amico Giuseppe (“Peppe”) Martini mi segnala, di Megan Scudellari, Blood to blood, in “Nature”, 25 gennaio 2015.^
5 Erodoto, Le Storie, Libro I, 216, a cura di David Asheri, traduzione di Virginio Antelami, Fondazione Lorenzo Valla, Milano, Mondadori, 1988.^
6 Domenico Scafoglio – Luigi M. Lombardi Satriani, Pulcinella. Il mito e la storia, Milano, Leonardo, 1992, p. 168.^
7 Pfeife è il greco Σύριγξ, latino calamus o fistula. S’intende precisamente l’agreste flauto di canne, o siringa, settemplice di canne di diseguale lunghezza: lo strumento di Pan. Anche i migliori filologi volgono erroneamente zampogna, che significa invece cornamusa; nell’Italia meridionale ciaramella e ciaramedda. Le traduzioni italiane delle Jahreszeiten non si privano di volger Pfeife con zampogna. Basterebbe pensare all’etimo di questo vocabolo, symphonia, per comprendere che syrinx non può esser zampogna: symphonia intende due (syn) linee melodiche simultanee, quella di bordone emessa dal sacco e quella cantata or da uno or dall’altro dei due calami.^
8 La mia traduzione preferita delle Fleurs du mal è quella di Gesualdo Bufalino.
L’ANIMA DEL VINO
E una sera lo spirito del vino in questo metro
cantò nei fiaschi: “Io t’amo, o Uomo, organo eterno,
e di sotto i vermigli sigilli del mio vetro
a te disciolgo un inno luminoso e fraterno!

Io so quanta fatica e sudore ci vuole
per mettermi alla luce a darmi anima e fiato,
sulla colluna in fiamme, sotto il cocente sole;
ma non sarò con te maligno né ingrato,

poiché mi sento invadere da un’immensa letizia,
quando d’un uomo esausto l’arida gola inondo:
assai più delle umide mie celle mi delizia
la tomba calda e tenera del suo petto profondo!

Non odi le domeniche stornellare, ed un fresco
bisbiglio di speranze alitarmi nel seno?
Rimbòccati le maniche, appòggiati sul desco,
e celebra il mio nome: sarai lieto e sereno.

Io accenderò negli occhi della tua donna l’estasi;
ridarò a tuo figlio nuova forza e colore;
e, se lo coglie fragile e inerme la tempesta,
sarò l’olio che i muscoli rassoda al lottatore.

Infine in te cadrò, agreste ambrosia, polline
d’oro disseminato dal gran Seminatore,
perché dal nostro amore la poesia rampolli
e a Dio si levi, a guisa d’ineffabile fiore!”

IL VINO DEL SOLITARIO
D’una donna galante il misterioso sguardo
che verso noi fluisce come la bianca luce
che sul tremulo lago la vaga luna induce,
quando vuole bagnarvi le sue grazie infingarde;

gli ultimi pochi scudi che impugna il giocatore;
un bacio libertino della magra Adelina;
le note d’una molle monotona sordina,
uguale al sordo gemito dell’umano dolore;

tutto questo non vale, o bottiglia profonda,
gli acri aromi che serbi nella pancia feconda,
per cui spegner la sete del pio vate presumi.

Tu gli mesci vigore, vita, speranze nuove
-e l’orgoglio sovrano, il tesoro dei poveri,
che l’anima ci esalta e ci apparenta ai numi!

IL VINO DEGLI AMANTI
Oggi lo spazio è bello a meraviglia!
Senza speroni, né morso, né briglia,
partiamo dunque a cavallo del vino
per un cielo fantastico e divino!

Come due cherubini che l’arsura
d’un estro inesorabile tortura,
nell’azzurro cristallo del mattino
salpiamo per l’aereo cammino!

Fianco a fianco, o sorella, mollemente
secondati dal turbine sapiente,
in una parallela frenesia,

insieme a nuoto fuggiremo via,
inseguendo il miraggio ov’io ravviso
dei miei sogni l’antico paradiso.^

9 Marcello, dunque, sopportò coraggiosamente l’esilio e il cambiamento di luogo non fu per lui cambiamento dell’animo, benché la povertà gli fosse compagna. E che questa non sia per nulla un male lo comprende chiunque purché non sia giunto a una tale smania di avarizia e dissolutezza da stravolgere ogni cosa. Quanto poco, infatti, occorre a un uomo per il suo sostentamento! E come può mancare questo poco a chi solo abbia qualche virtù? Per quel che mi riguarda, non le ricchezze sento di aver perduto, ma le preoccupazioni. Le necessità del corpo sono minime: esso chiede che sia allontanato il freddo, che siano placate, con gli alimenti, la fame e la sete; tutto quel che desidera in più è per il vizio e non per necessità. Non abbiamo bisogno di scandagliare tutte le profondità marine, né appesantire lo stomaco con stragi di selvaggina, né strappare a una spiaggia ignota le conchiglie dell’oceano. Che gli dei e le dee confondano quelli la cui dissolutezza valica i confini di un così invidiabile impero. Pretendono che sia preso di là dal Fasi ciò che serve alla loro fastosa cucina e non si vergognano di chiedere uccelli ai Parti, con i quali non abbiamo ancora saldato i conti. Da tutto il mondo fanno venire per il loro palato schizzinoso i cibi più prelibati, dal lontanissimo oceano vengono portate vivande che il loro stomaco, rovinato dalle raffinatezze, a mala pena riesce a tollerare. Vomitano per mangiare, mangiano per vomitare e non si degnano nemmeno di digerire quei cibi che fanno cercare per tutto il mondo. Ma a chi disprezza tutto questo, che danno può portare la povertà? A chi, invece, desidera queste cose la povertà giova egualmente: infatti lo guarisce a suo malgrado perché anche se egli non accetta il rimedio, benché vi sia costretto, non potendo, è simile a quello che non vuole. C. Cesare, che la natura, mi pare, ha voluto far nascere proprio per mostrare a che cosa possono giungere i grandi vizi accompagnati a una grande fortuna, per una cena, in un sol giorno, spese dieci milioni di sesterzi e, aiutato in questo dalla fantasia di tutti, trovò la maniera, anche se a fatica, di spendere per una sola cena le entrate di tre provincie. O miserabili quelli il cui palato non è stuzzicato se non dai cibi più costosi! Costosi non già per il sapore straordinario o per una particolare dolcezza del gusto, ma per la loro rarità e per le difficoltà di procurarseli. Ma se tutta questa gente volesse tornare alla ragione, che bisogno c’è di tante arti al servizio del ventre? Perché tanti scambi commerciali? Perché devastare tante foreste? Perché scandagliare il fondo del mare? Dappertutto si trovano cibi che la natura ha distribuito in tutti i luoghi, ma costoro passano oltre come ciechi e percorrono tutte le regioni e attraversano i mari e mentre con poco potrebbero placare la fame, la stuzzicano a caro prezzo. Vien voglia di dire: perché mettete in mare le navi? perché vi armate contro le fiere e contro gli uomini? perché correte così inquieti qua e là? perché accumulate le ricchezze? Non volete considerare quanto piccolo è il vostro corpo? Non è una pazzia, non è un delirio estremo desiderare tanto, quando può contenere così poco? Voi potrete accrescere il vostro censo, potrete allargare i vostri confini, ma giammai ingrandire i vostri corpi. Quand’anche i vostri commerci siano andati bene e la guerra vi abbia reso molto, quand’anche abbiate ammucchiato i cibi venuti da ogni dove, voi non avrete dove mettere tutte queste provviste. Perché, dunque, raccogliete tante cose? Certamente, allora, i nostri antenati, la cui virtù è ancor oggi il sostegno dei nostri vizi, erano ben infelici, dal momento che si preparavano il cibo con le loro mani e avevano per letto la terra, e le cui dimore non splendevano di ori e non avevano templi sfolgoranti di gemme. Allora si giurava su divinità di argilla e chi le invocava tornava dal nemico disposto a morire pur di non tradirle. Certo quel nostro dittatore che ascoltò gli ambasciatori sanniti mentre cuoceva sul fuoco un poverissimo cibo con le sue mani, con quelle stesse mani con le quali spesso aveva colpito il nemico e aveva deposto una corona in grembo a Giove Capitolino, certo, doveva vivere meno beato di quanto, a quel che noi ricordiamo, visse Apicio, che in quella città dalla quale, un tempo, i filosofi furono costretti ad andarsene perché considerati corruttori della gioventù, fu maestro di scienza culinaria e col suo insegnamento corruppe tutta un’epoca! Vale la pena di conoscere la sua fine: dopo aver sperperato in cucina un milione di sesterzi e dopo aver divorato in una gozzoviglia dopo l’altra tante elargizioni di principi e l’enorme tributo del Campidoglio, oberato dai debiti, fu costretto per la prima volta a fare i suoi conti e così calcolò che gli restavano soltanto dieci milioni di sesterzi e, come se vivere con dieci milioni di sesterzi volesse dire patir la fame, si avvelenò. Quanta dissolutezza in quell’uomo che considerava miseria dieci milioni di sesterzi! Vieni, dunque, ora a dirmi che la ricchezza sta nelle cose e non nell’animo. Un tizio ha avuto paura di dieci milioni di sesterzi e fuggì col veleno ciò che gli altri desiderano con tutti i loro voti. Per quell’uomo, dal cervello così malato, l’ultima bevanda fu la più salutare; ma i veleni li mangiava e li beveva, quando, con i suoi smisurati banchetti non soltanto godeva ma si gloriava, quando ostentava i suoi vizi, quando trascinava tutta la città nella sua dissolutezza, quando spingeva i giovani, già così inclini anche senza cattivi esempi, a imitarlo.^
10 Ma Aulo era curvo sull’orlo del triclinio, la fronte in sudore, il viso verde, i pugni sullo stomaco.
I Sadducei finsero una grande commozione; il giorno dopo fu loro restituita la sacrificatura. Antipa faceva sfoggio di disperazione. Vitellio rimaneva impassibile. Eppure la sua angoscia era violenta; con suo figlio perdeva la sua fortuna.
Aulo aveva appena finito di provocarsi il vomito, che già voleva mangiare di nuovo.
- Che mi si dia della polvere di marmo, dello schisto, dell’acqua di mare, qualsiasi cosa! E se facessi un bagno?
Sgranocchiò della neve e dopo essere rimasto incerto fra una terrina di Comagena e alcuni merli rosa si risolse per le zucche al miele. L’Asiatico lo contemplava, quella capacità di divorare rivelava un essere prodigioso, di razza superiore. (traduzione di Anna Maria Speckel)^
11 Adopero la traduzione di Ezio Fischetti, apparsa negli anni Trenta per la “Sansoniana straniera”, di gran lunga migliore di quelle pubblicate in seguito.
Alla insufficienza delle cucine di Amilcare il Consiglio aveva rimediato inviando al palazzo altri schiavi, altro vasellame e letti; e si vedevano in mezzo al giardino, come su un campo di battaglia quando s’abbruciano i morti, grandi fuochi limpidi sui quali giravano, arrostendosi, i buoi. I pani cosparsi di semi d’anice s’alternavano ai grossi formaggi più pesanti di macine, ai crateri colmi di vino, alle anfore d’acqua, ai canestri di filigrana d’oro che contenevano fiori. La gioia di potersi finalmente rimpinzare a sazietà faceva dilatare tutti gli occhi: qua e là cominciavano i canti.
Si serviron dapprima uccelletti in salsa verde, su tondi d’argilla rossa adorni di figure nere, poi tutte le varietà di molluschi che si pescan sulle coste puniche, minestre di farina, di fave e d’orzo, e chiocciole condite col comino su piatti d’ambra gialla.
Poi le mense apparvero coperte di carni: antilopi con le loro corna, pavoni con le penne, montoni interi cotti nel vin dolce, cosciotti di cammella e di bufalo, ricci in intingolo di garo, cicale fritte e ghiri acconciati col miele. In piatti di legno di Tamrapanni grandi pezzi di grasso nuotavano nello zafferano. L’aria era pregna d’odore di salamoia, di tartufi e d’assafetida. Le piramidi di frutta rovinavano sui dolci di miele; né s’era dimenticato di servire qualcuno di quei piccoli cani dal grosso ventre e dalle setole rosee che venivano ingrassati con la feccia dell’olio d’uliva, pietanza cartaginese abominata dagli altri popoli. La novità dei cibi eccitava la bramosia degli stomachi. I Galli dai lunghi capelli rialzati nel sommo del capo si strappavano fuor delle mani i cocomeri e i limoni, che divoravano poi con tutta la buccia; i Negri si laceravano la faccia con le pinze dei gamberi, che non avevan mai visti prima in vita loro. Ma i Greci dal volto raso, più bianchi che marmo, si gettavano dietro le spalle i rifiuti dei loro piatti, mentre i pastori del Bruzio, vestiti di pelli di lupo, divoravano ogni cosa in silenzio, col viso nella propria pietanza.
Scendeva la notte; fu perciò tolto il velario steso sul viale dei cipressi, e si portarono le fiaccole.
Le luci vacillanti del petrolio che ardeva nei vasi di porfido spaventarono, sull’alto dei cedri, le scimmie sacre alla luna: i loro strilli misero i soldati in allegria.
Fiamme oblunghe tremolavano sulle armature di bronzo; scintillìi d’ogni genere sprizzavano dai piatti incrostati di pietre preziose. I crateri, dalle facce a forma di specchi convessi, moltiplicavano l’immagine ingrandita delle cose; i soldati, affollandosi all’intorno, vi si rimiravano con meraviglia, facendo grandi smorfie per ridere. Essi si lanciavano di sopra alle mense gli sgabelli d’avorio e le spatole d’oro; tracannavano i vini greci contenuti in otri, i vini di Campania racchiusi in anfore, i vini dei Cantabri recati in barili, e i vini estratti dal giuggiolo africano, dal cinnamono e dal loto; il liquido versato formava viscide pozzanghere in terra. Il fumo delle vivande saliva tra il fogliame degli alberi insieme col vapore degli aliti. S’udivano al tempo stesso il rumore delle mascelle, il chiasso delle parole e dei canti, il tinnìo delle coppe, il fracasso dei vasi di Campania che andavano in mille pezzi, e il suono limpido d’un gran piatto d’argento.^
12 Adopero l’edizione e traduzione di Vincenzo Ciaffi, Torino, Utet, 1967.
31, 8-11. Fu servito comunque un antipasto di gran classe, che tutti ormai erano a tavola, all’infuori di lui, Trimalcione, al quale in nuova usanza era riservato il primo posto. Quanto al vassoio, vi campeggiava un asinello in corinzio con bisaccia, che aveva olive bianche in una tasca, nere nell’altra. Ricoprivano l’asinello due piatti, su cui in margine stava scritto il nome di Trimalcione e il peso dell’argento. E vi avevano saldato ancora dei ponticelli, che sostenevano ghiri cosparsi di miele e papavero. E c’erano dei salsicciotti a sfrigolare su una graticola d’argento, e sotto la graticola susine di Siria con chicchi di melagrana.^
13 33, 3-8 Intanto, mentre lui tra una mossa e l’altra dava fondo al vocabolario dei carrettieri, dinanzi a noi, che eravamo ancora all’antipasto, fu collocato un vassoio con sopra una cesta, in cui c’era una gallina di legno con l’ali aperte a cerchio, come stanno d’abitudine quando covano. Si accostano subito due schiavi, che in un concerto assordante prendono a frugare tra la paglia e tiratene fuori uova di pavone su uova le dividono tra i convitati. A questo colpo di scena, Trimalcione volge il capo, e “Amici, – dice, – uova di pavone ho fatto mettere sotto la gallina. Ma ho paura, per bacco, che ci sia già la famiglia! Ad ogni modo, proviamo se sono ancora da bere. Sì, si possono bere” Riceviamo dei cucchiaini da mezza libbra almeno e rompiamo queste uova rivestite di pasta frolla. Io però fui a un pelo dal gettar via la mia porzione, ché in effetto mi pareva ci fosse già il pulcino. Ma poi, quando sento da un commensale di vecchia data “Qui dev’esserci qualcosa di buono”, frugo con la mano dentro il guscio e trovo immerso nel tuorlo pepato un beccafico bello grasso^
14 36. Appena questo disse, ecco quattro valletti accorrere danzando a suon di musica e togliere il coperchio dell’alzata. Ciò fatto, vediamo lì dentro capponi e pancette, e in mezzo, a far da Pegaso, una lepre fornita d’ali. E notammo ancora agli angoli dell’alzata quattro figure di Marsia, dai cui otricelli scorreva una salsa pepata, con sotto dei pesci che nuotavano in una specie di euripo. Tutti applaudiamo a incominciare dai servi e ridendo muoviamo all’assalto di quella roba prelibata. Non meno lieto anche lui per la bella sorpresa, “Scalca” dice Trimalcione. Avanza immediatamente un trinciante, che fa a pezzi le vivande con una pantomima a suon di musica, da sembrare un essedario quando si batte accompagnato dall’organo. Tuttavia Trimalcione martella con voce cadenzata: “Scalca, Scalca”. Io, preso dal sospetto che quella parola così ripetuta voglia essere una facezia, non mi perito di proporre un simile quesito al commensale che ho dietro. E questi, che aveva già assistito tante volte a giochetti del genere, “Vedi – dice – quel tale che scalca le vivande? Scalca si chiama. Così lui ogni volta che dice ‘Scalca’ con un’unica parola chiama e ordina.”^
15 Certo sono io a sbagliare: quest’idea è soprattutto di scrittori francesi e tedeschi, sin da E. Th. A. Hoffmann e Severino Kierkegaard. Ma, per fortuna, può leggersi il grande libro di Giovanni Macchia, Vita, morte e avventure di Don Giovanni, 1966, quinta edizione Milano, Adelphi, 1991. E tuttavia quest’opera si qualifica anche “di musicologo”: or, se nessun musicologo italiano o di altre nazioni mai ha scritto e scriverà col fascino stilistico e la profondità di Macchia, la sezione dedicata al teatro musicale lascia a desiderare. L’Autore asserisce che dopo Mozart il tema è stato trattato in maniera scadente dal teatro musicale ma ignora due testi novecenteschi: sia il Don Giovanni di Felice Lattuada, derivante da Zorrilla, sia L’ombra di Don Giovanni di Franco Alfano. Nulla può esser accostato a Mozart; ma si tratta comunque di opere di rilevante valore. Inoltre, là ove si parla del Don Juan di Strauss, l’insigne Scrittore si fa fuorviare da letture errate, e quindi aderisce alla tesi, che per esser diffusa non è meno falsa, che Strauss scriva i Poemi sinfonici (Ton-Dichtungen: meglio dovrebbe dirsi Poesie sinfoniche) alla stregua di sollecitazioni non musicali che ab extra informerebbero l’opera, laddove è palese posseder egli un concetto di forma pura alla quale si adatta, e si vorrebbe dire ex post, il testo poetico a che l’opera si riferisce. Altro è il carattere più o meno mimetico del materiale tematico: ma qui è questione della forma entro la quale tale materiale si organizza.^
16 Amo di Orazio la traduzione musicalissima di Enzio Cetrangolo.
Non piantare altri alberi, Varo, prima della vite
sacra nel suolo mite di Tivoli né intorno alle mura
di Catilo: duri pesi ai sobrii il dio propose
né altrimenti scompaiono gli affanni mordaci.
Chi dopo il vino parla più di armi gravose
O di sua povertà? Chi non esalta te, padre Bacco,
e te Venere bella? Ma che i doni di un Libero
moderato nessuno oltrepassi è monito la rissa
sanguinosa dei Centauri e dei Lapiti accesi di vino,
è monito Evio terribile ai Traci quando non vedono
di libidine avidi di là dal giusto l’orrore.
Non io, candido Bassareo, ti turberò contrario,
né sotto il cielo aprirò i tuoi cesti di fronde
coperti. Tieni lontani il corno Berecinzio
e i timpani feroci: nasce da loro il cieco orgoglio,
la gloria che leva troppo alto il capo vacuo,
la fiducia prodiga d’arcano più del vetro chiara.^
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